"Il nostro Paese è tra gli ultimi per la qualità delle sue infrastrutture digitali, per il numero di cittadini connessi alla rete così come per la velocità di download (93°, dopo le Fiji) e di upload (143°, dopo il classico Trinidad e Tobago). La politica, essendo espressione delle lobby dell’editoria televisiva e temendo la diffusione di contenuti multimediali concorrenti non meno della diffusione della conoscenza e dell’informazione libera, ha non solo disincentivato nel passato l’evoluzione digitale della nostra economia, ma la ha proprio decisamente ostacolata grazie al non adeguamento delle normative e alla continua minaccia, spesso ma non sempre disinnescata grazie alla mobilitazione di blog e associazioni, di atti legislativi ostili. Quello che il partito del rottamatore di Arcore è riuscito a fare in pochi mesi di legislatura contro le libertà digitali ha dell’incredibile.
La web tax
La Commissione Bilancio alla Camera ha approvato un emendamento di Edoardo Fanucci (Pd)) alla Legge di Stabilità, sostenuto dal presidente della CommissioneFrancesco Boccia (Pd), che istituisce la cosiddetta Web Tax. Recita così: «i soggetti passivi che intendano acquistare servizi online, sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media ed operatori terzi, sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita Iva italiana». Cosa significa? Che d’ora in poi non potremo più acquistare merce o software o servizi di qualunque tipo da siti che non abbiano aperto una partita Iva italiana. Quello che non esiste da nessun’altra parte in Europa, da noi sta per diventare realtà. Da Amazon a Google a qualunque altra impresa anche piccola, magari operante dall’altra parte del globo: saremo tagliati fuori da tutto, perché è evidente che il servizio che sarà disponibile agli altri cittadini europei, fornito magari da una piccola società del Michigan, a noi sarà precluso, essendo nei fatti impossibile dall’estero espletare tutte le pratiche previste dalla burocrazia italiana per sobbarcarsi l’onere di una posizione fiscale nel Paese più tartassato e oberato di scartoffie amministrative del mondo civilizzato. Ed è ipotizzabile che anche i giganti del web, che trovano nell’Italia un mercato del tutto marginale, possano abbandonarlo a se stesso per concentrarsi su territori meno oscurantisti e più redditizi. Vero è che oggi i colossi digitali fatturano nei paesi fiscalmente più convenienti, come l’Irlanda, ma nell’era dell’integrazione politica a tutti i costi, vuoi vedere che l’unica soluzione che non si può trovare a livello comunitario è quella di un riequilibrio delle politiche fiscali? Ci crede così poco, Letta, all’Unione Europa alla quale sacrifica ogni politica nazionale diversa da quella digitale?
Contro i motori di ricerca
Ma la scure della Santa Inquisizione democratica non si ferma. Nel Consiglio dei Ministri di venerdì scorso, il proverbiale “venerdì 13”, il governo delle ex larghe intese (“Tesoro, mi si sono ristrette le intese”) ha varato un decreto che sferza un altro micidiale colpo sui motori di ricerca e sulla stessa libertà di informazione. Sotto evidente dettatura delle morenti lobby dell’editoria cartacea, viene incredibilmente sancito che prima di "linkare, indicizzare, embeddare, aggregare" un contenuto giornalistico è necessario chiedere il permesso all'editore. Avete capito bene: la fine dei provider di ricerca che indicizzano le ultime notizie per poi rimandarvi eventualmente alla fonte (viene in mente Google News). Ora dovranno stringere accordi preventivi con gli editori, che si possono immaginare economicamente svantaggiosi. Ma se quel “linkare ed embeddare” evoca sinistri presagi che aleggiano sui blog, i quali si ritroveranno a domandarsi se possono ancora inserire collegamenti ipertestuali agli articoli dei giornali, o citarne stralci, senza dover essere costretti a firmare improbabili contratti con Rcs o con il Gruppo Editoriale l’Espresso, quell’”aggregare” evoca scenari esilaranti nei quali potrebbero diventare illegali in un colpo solo tutti i feed reader privi di autorizzazione e trasformare i vostri pc in tante pericolose rotative clandestine. Un ennesimo regalo all’editoria e un inesplicabile duro colpo allo sviluppo della cultura della circolazione delle informazioni, attuato per decreto e ancora una volta senza il coinvolgimento del dibattito parlamentare.
Il sorpruso antidemocratico dell'AGCOM
E senza alcun dibattito parlamentare si è consumato un vero e proprio sopruso, un atto autoritario, antidemocratico e probabilmente anche incostituzionale, perpetrato dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCom), che il 12 dicembre ha varato una delibera che non ha precedenti altrove nel mondo e che consegna la libertà di pensiero al suo antagonista storico, l’insieme dei gruppi di pressione che tutelano il copyright, eliminando con un colpo di spugna l’attribuzione del potere giudiziario ai magistrati e conferendolo agli avvocati delle lobby, i quali in presenza (a loro insindacabile giudizio) di “un'opera, o parti di essa, di carattere sonoro, audiovisivo, fotografico, videoludico, editoriale e letterario, inclusi i programmi applicativi e i sistemi operativi per elaboratore, tutelata dalla Legge sul diritto d'autore e diffusa su reti di comunicazione elettronica”, potranno segnalarla all’Agcom che nel giro di pochi giorni potrà ordinare agli internet provider di oscurarla o rimuoverla. Per chi si illudeva che anche il nostro Paese, un giorno, avrebbe visto la nascita di un principio sacrosanto come quello del Fair Use, in vigore altrove, che consente ai cittadini di diffondere stralci di opere protette dal diritto di autore al fine di realizzare un dibattito o di stimolare una discussione attinente, la delibera Agcom appena emanata rappresenta la fine di ogni speranza. Tutto, qualunque contenuto presente in rete, secondo le definizioni di cui sopra, potrà essere oggetto di rivendicazione da parte degli editori. Un video su internet che contiene alcuni spezzoni di un telegiornale o di un servizio giornalistico, una foto pubblicata su un blog, anche se modificata in senso umoristico, magari elaborata a comporre un fotomontaggio, uno stralcio di articolo tratto da un giornale, l’audio del saggio di pianoforte di vostra figlia nel quale l’editore dello spartito riconosce l’uso della diteggiatura da lui depositata, tutto potrà risultare in una segnalazione effettuata all’Agcom che potrà ordinare al vostro hosting provider, o magari a YouTube, di cancellare il vostro blog in tutto o in parte, così come il vostro video. E poiché il provider o il fornitore di servizi di condivisione che nel volgere di pochissimi giorni non dovesse ottemperare, si troverebbe a pagare una sanzione che può arrivare fino a 250mila euro, si può tranquillamente puntare sul rosso e scommettere sul fatto che le segnalazioni inoltrate dall’Agcom verranno immediatamente tradotte nella rimozione dei contenuti controversi, e magari nell’oscuramento di tutto il sito. Interi blog di informazione, pieni di citazioni, di clip multimediali e di composizioni fotografiche, potrebbero scomparire dal 1 di aprile, data di entrata in vigore della normativa. Scavalcando a volo d’uccello l’unico potere che secondo la Costituzione può limitare la libertà di espressione: la magistratura. E purtroppo non si tratterà di un pesce d’aprile. Ed è notizia dell'ultima ora che, in un documento confidenzialeinviato al Governo italiano nientemeno che dal vicepresidente della Commissione Europea Maros Sefcovic, Commissario alle relazioni istituzionali, si chiede alle autorità italiane di chiarire in che modo intendono garantire la protezione dei diritti fondamentali dei cittadini nell'applicazione del regolamento Agcom.
Tasse su smartphone, tablet e pc
Come se non bastasse, sempre nell’ottica di agevolare lo sviluppo delle nuove tecnologie e la diffusione della cultura digitale, il decreto del Consiglio dei Ministri di venerdì scorso ha escluso l’editoria elettronica (i produttori di ebook) dalle incentivazioni per l’editoria. E ha già annunciato che la settimana prossima varerà un nuovo decreto che imporrà balzelli sugli smartphone, sui tablet e sui pc, per un ammontare complessivo che nel 2014 assommerà a cento milioni di euro. Anziché spingere l’Italia e gli italiani verso la modernità, nel doveroso tentativo di mettersi perlomeno in scia con il progresso tecnologico che sostiene i popoli degli altri paesi del mondo nella loro domanda di competitività, il “progressista”
Enrico Letta assesta con il suo Governo i colpi più devastanti che la storia degli attacchi alla Rete in Italia ricordi, caratterizzandosi come uno degli alfieri delle lobby più cinico e spietato, e come uno dei nemici della conoscenza distribuita, dell’innovazione e della mobilità sociale che le nuove tecnologie consentono più ostile e oscurantista. Quanto costerà tutto questo alla nostra economia, in termini di ritardo nello sviluppo e dunque in termini di ulteriore perdita di produttività, purtroppo, lo scopriranno ancora una volta i nostri figli."
WEB TAX, tasse su SMARTPHONE E TABLET. Ecco cosa fa di NASCOSTO il governo LETTA.. mentre TUTTI i TG CONNIVENTI tacciono !!!
Abusivismo parlamentare: 945 parlamentari illegittimi! Dimettetevi!
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. Si ritorna al proporzionale con soglia di sbarramento.
Ma non rivive il Mattarellum, come voleva un drappello di giudici costituzionali, perché la Consulta indica la necessità delle preferenze, non previste nel vecchio sistema.
Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8.
Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato ( di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
La sentenza è una batosta pesante che colpisce il parlamento inefficiente, i partiti divisi e la Casta dei politici che non hanno finora trovato un accordo sulla riforma. La Consulta dà, in sostanza, tre settimane alle Camere per correre ai ripari: il tempo necessario di solito per il deposito delle motivazioni della sentenza, perché solo da quel momento ne decorreranno «gli effetti giuridici».
E agli occhi di tutti apparirebbe l’illegittimità dei mille eletti con un sistema incostituzionale.
Una lunga discussione in camera di consiglio, iniziata in mattinata e proseguita, dopo una breve pausa, nel pomeriggio fino a poco prima delle 18, porta la Consulta a una decisione dai pesanti effetti politici sulla composizione delle Camere, sull’entità della maggioranza e sullo stesso governo.
Un verdetto che per alcuni accorcia le prospettive di questa legislatura e avvicina un voto anticipato, per altri potrebbe congelare il quadro in attesa della riforma. Crea comunque instabilità e incertezza.
La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza.
Nel comunicato stampa la Corte precisa che «nelle prossime settimane» si conosceranno le motivazioni del verdetto, che avrà solo allora i suoi effetti. E sottolinea, per non dare l’impressione di un’usurpazione di poteri, un’ovvietà: «Resta fermo che il parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali ». Scelte che, in teoria, potranno essere diverse dall’orientamento della Corte. Sarà la politica a dettarle. Esulta l’avvocato Aldo Bozzi, legale dei cittadiniche hanno promosso il ricorso trasmesso dalla Cassazione: «Quattro anni di battaglie andate a buon fine - dice -. Siamo tornati a essere cittadini e non dei sudditi. E adesso non si crea nessun vuoto giuridico ». Per Bozzi, si potrebbetornare al Mattarellum e andare a votare «in estate». Ma non è d’accordo l’altro avvocato dei ricorrenti, Felice Carlo Besostri: «Se la politica non interverrà con una nuova legge elettorale spiega-, farà sì che alle prossime elezioni si andrà a votare con una legge proporzionale con soglie di accesso e la possibilità di dare una preferenza».
Lo squilibrio nelle pensioni di anzianità
L’iniquità del sistema pensionistico italiano ha le sue radici nei privilegi di alcuni settori, nelle pensioni (di anzianità) più alte, nel loro numero e nel sistema di calcolo retributivo. Abbiamo calcolato lo sbilanciamento tra prestazioni contributive e retributive dal 2008 al 2012.
Il confronto sulla legge di stabilità ha avuto il merito di portare alla luce la grande iniquità distributiva che caratterizza il nostro sistema pensionistico.
Ed ecco che i giornali con grande stupore scoprono che la distribuzione delle pensioni in Italia ha un che di “brasiliano”: al 5 per cento dei pensionati più ricchi (800 mila persone su 16 milioni) va più del 16 per cento del totale della spesa per pensioni (43 miliardi su 270).
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA
Ma possiamo anche sottolineare come nei cinque anni della crisi sono andati in pensione (previdenziale) circa 1,6 milioni di persone, con un costo complessivo pari a 31 miliardi a regime (cioè nel 2012), e che di questi 31 miliardi ben l’80 per cento della spesa (e cioè 24 miliardi) è andato a 717 mila persone che hanno avuto le pensioni più alte, con medie di 2600 euro o importi più elevati. Molti di questi hanno poi continuato a lavorare cumulando (legalmente) pensione e reddito.
Ma il welfare italiano non è solo il paese per ricchi che qui abbiamo descritto ed è popolato anche da quelli più sfortunati. Gli sfortunati sono coloro che dovranno aspettare a volte senza poter lavorare non la pensione di anzianità appannaggio di chi lavora con carriere piene alle spalle, ma la pensione di vecchiaia, improvvisamente portata a 67 o 70 anni.
L’iniquità distributiva del sistema pensionistico italiano ha le sue radici principali nei privilegi di alcuni settori, nelle pensioni (di anzianità) più alte, nel loro numero preponderante negli anni 2000 e nel sistema di calcolo retributivo che ha consentito trattamenti insostenibili.
I DATI DELL’INIQUITÀ
Ma quale è stato il meccanismo che ha prodotto tutto ciò, e come si può quantificare questa “iniquità”?
In uno studio in procinto di pubblicazione che abbiamo recentemente presentato all’Università La Sapienza di Roma abbiamo illustrato i risultati di un modello che valuta lo sbilanciamento tra prestazioni contributive e retributive delle pensioni erogate dal 2008 al 2012 stimando in tal modo quanto è stato effettivamente sulle pensioni di anzianità liquidate negli ultimi cinque anni e valutandone anche il costo in termini di spesa complessiva effettiva.
Per fare ciò sono state utilizzate come benchmark le pensioni medie per ogni scaglione di reddito ricalcolate secondo le regole del contributivo. L’eccedenza della pensione percepita rispetto a questo benchmark costituisce la pensione “in squilibrio” rispetto ai contributi accreditati.
Per calcolare le pensioni contributive è stata ricostruita la serie delle retribuzioni con i relativi contributi in tutta la vita attiva, utilizzando come anzianità contributiva quella media effettiva, circa 38 anni, e ipotizzando un andamento della retribuzione pari a quello medio di fatto effettivo, più un profilo di carriera individuale, differenziato in relazione al livello di retribuzione dell’ultimo anno, che abbiamo stimato sulla base di analisi empiriche (longitudinali). Vediamo i principali risultati.
La platea sulla quale facciamo la valutazione è costituita dalle pensioni di anzianità maturate tra il 2008 e il 2012 da circa 486 mila lavoratori dipendenti privati pensionatisi in media a 58,5 anni, tra il 2008 e il 2012, per un importo medio di quasi 2000 euro lordi. La spesa per questa platea è stata di 12 miliardi di euro nel 2012. Il 37 per cento di questi pensionati è collocato sopra i 2000 euro e percepisce un totale di 7 miliardi pari quasi al 60 per cento della spesa.
I risultati dello squilibrio sono riportati nella tabella 1, sia in termini di pensione mensile sia di spesa totale. La parte non “giustificata” dai contributi pagati è in media pari al 28 per cento circa e si concentra principalmente nella fascia delle pensioni più alte, dove il 37% dei pensionati, quelli con più di 2500 euro mensili, accumula il 63 per cento dello squilibrio complessivo.
Tabella 1 – Squilibrio dei contributi nelle prestazioni pensionistiche
Schermata 2013-12-03 alle 08.12.01
DOVE SI ANNIDANO GLI SQUILIBRI
Per le pensioni dei lavoratori dipendenti privati maturate dopo il 2008, sui circa 12 miliardi di spesa pensionistica circa 3,5 miliardi non sono “giustificati” dai contributi pagati (1). In particolare l’entità dello squilibrio diminuisce all’aumentare dell’età di pensionamento per effetto della minore speranza di vita nel calcolo contributivo. Infatti per le pensioni percepite all’età di vecchiaia (di cinque anni più alta in media di quella di anzianità) lo squilibrio è minore ed è in media pari al 15 per cento.
Questi valori crescerebbero includendo anche i dipendenti pubblici (2). Per le sole pensioni di anzianità, vi sarebbero quindi ulteriori 2,5 miliardi che porterebbero il totale dello squilibrio (solo per le pensioni di anzianità maturate dal 2008 al 2012) a circa 6 miliardi di euro annui nel 2012.
È opportuno sottolineare che per le pensioni superiori a 44 mila euro annui si è valutato anche l’effetto di riduzione dello squilibrio causato dall’operare del “tetto” sull’aliquota di rendimento che attenua il valore delle pensioni retributive più alte. Il grafico evidenzia come, al crescere della retribuzione oltre i 5 mila euro mensili, lo squilibrio percentuale cominci a ridursi.
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Questi dati evidenziano una situazione di grande iniquità distributiva nella quale lo stato trasferisce risorse ingenti per sostenere le pensioni più opulente e godute in età anteriori a 60 anni. Si è osservato da alcune parti che le pensioni di anzianità sarebbero state principalmente la “compensazione” al lavoro operaio e precoce. Non è così: nel milione di persone circa (tabella 2) che è andato in pensione di anzianità, tra il 2008 e il 2012 compresi i dipendenti pubblici e gli autonomi, le pensioni inferiori ai 1500 euro mensili, che comprendono verosimilmente quelle degli operai, sono solo il 18 per cento, ed hanno complessivamente il 10 per cento della spesa pensionistica.
Tabella 2 – Pensioni di anzianità dipendenti e autonomi liquidate dal 2008 al 2012 per classi di reddito inferiori e superiori a 1500 euro mensili
Schermata 2013-12-03 alle 08.12.41 ns elaborazioni su dati Inps Inpdap
Lo stupore per queste cifre può ancora lasciare spazio a chi pensa che si possa contribuire a rilanciare l’economia italiana attraverso una politica capace di connettere politiche del welfare e mercato del lavoro, ristrutturando e non tagliando la spesa pubblica. Si può partire aggredendo il nodo del sistema previdenziale, mettendo in campo un’operazione di verità sulle pensioni che scopra i margini per un intervento redistributivo al suo interno e che favorisca l’occupazione, tuteli i più deboli, eliminando iniquità e privilegi: un modo efficace per sostanziare la retorica del “circuito virtuoso tra equità e sviluppo”.
(1) Ci si riferisce ai risultati medi e casi particolari dovuti a profili di carriera che, ad esempio, non crescono negli ultimi anni abbiano squilibrio inferiore o nullo e viceversa.
(2) le cui pensioni medie di anzianità sono mediamente più alte del 20 per cento di quelle dei privati.
Ecco perchè l'Austerity è inutile! Quello che i media collusi non dicono! Svegliamoci!
C'è un famoso aforisma di Henry Ford che cito:
"E' un bene che il popolo non comprenda il funzionamento del nostro sistema bancario e monetario, perché se accadesse credo che scoppierebbe una rivoluzione prima di domani mattina." Bisognerebbe chiedersi per chi sia un bene? Scommetto che molti sanno la risposta, ma ancora una volta si nasconderanno dietro le barriere dell'immobilismo e dell'oscurantismo, piaghe sociali queste di cui i mass-media ne sono emblematici portatori.