Un uomo del web non può tenere segreta una lettera. Anzi, la missiva diventa strumento di propaganda. Normale. Con chi pensano di avere a che fare Barroso e Katainen? In quale mondo vivono? Nel vecchi volti raggrinziti di Monti e Letta? Signori, siamo in Renzilandia, il regno del virtuale, della grancassa delle promesse e degli annunci. Della politica spettacolo. La lettera della Bce del 2011, che pure ha avuto riflessi politici piuttosto pesanti, era indirizzata a Berlusconi, uno che rispetto a Renzi è un apprendista, un dilettante, perfino riservato. Dunque nessuna sorpresa. Strictly confidential? Ma suvvia, vecchie cariatidi non ancora rottamate, è proprio l’invito a fare l’opposto.
Mancano due miliardi e Renzi li trova in una giornata. Come un prestigiatore li fa uscire dal suo cilindro. Ne mancano quattro? Serviranno due giornate. Pinocchio o Mandrake? Ma che importanza ha? E attenti perché il nostro Matteo adesso è lui che minaccia l’Europa. Dirà quanto spende. Perché non lo ha fatto prima? Diciamo la verità, a parte le battute e le ironie che Renzi ispira quando parla da “gradasso”, come lo ha definito Giampaolo Pansa, nel merito il giovin signore fiorentino ha ragione. Tutto in Italia peggiora. Secondo Standard e Poor il nostro debito è schizzato ancora più su negli ultimi tre mesi, passando dal 130,7% al 133,8% sul Pil, mentre la disoccupazione giovanile è ancora ben oltre il 44%. L’Italia chiuderà l’anno ancora in recessione. Possiamo continuare così?
È così difficile capire che il rigore ci affonda e ci affama? Che anzi il rigore ci appesantisce sia il deficit sia il debito, comprimendo lo sviluppo? Dunque fa bene Renzi a battere i pugni sul tavolo. Fa bene a rinviare al mittente la lettera come ha fatto Hollande. Però Hollande ha sforato il tetto del 3% e nel 2015 sarà ancora sopra il 4, perché, ispirandosi alle note teorie keynesiane, vuole spendere per investimenti pubblici in grado di produrre lavoro, occupazione e sviluppo. Renzi punta tutto sulla detassazione, i diciotto miliardi che servono per l’Irap e per le nuove assunzioni, per larga parte finanziate alzando il deficit dal 2,2% al 2,9%. L’operazione è coraggiosa. Ha trovato l’assenso delle imprese. Padoan considera possibili in due anni ottocento mila nuovi occupati.
Ma se il lavoro non c’è basterà la defiscalizzazione? Questo riguarda soprattutto le piccole imprese che stanno chiudendo per la mancanza di lavoro. E’ questo il punto fondamentale. La riserva di fondo. Serviranno i miliardi che Junker mette a disposizione per i singoli paesi? Sono trecento miliardi davvero? Sono pubblici o in larga parte privati? E in base a quali criteri verranno distribuiti? Ce lo spiegheranno anche questo per lettera? O Renzi dirà che in un giorno ne troverà di più? Ecco quello che ci aspettiamo dal nostro governo, un piano industriale e del lavoro, oltre alla giusta detassazione che la legge di stabilità prevede. Sono troppe le aziende che continuano a chiudere, troppe quelle che sono state delocalizzate in atri paesi con gravi ripercussioni sulla nostra manodopera. Su questo, non sull’articolo 18, il sindacato dovrebbe concentrarsi. Domani tra la Leopolda e piazza San Giovanni ho l’impressione che questo tema resterà sfuocato. E s’udrà a destra uno squillo di tromba di vittoria e dall’altra risponderà lo squillo della disfatta.
Lettera a Pinocchio?
Un’unica via per la ripresa dell’Eurozona EUROPA
POLITICHE FISCALI ANTI-CICLICHE: STABILIZZANTI O DESTABILIZZANTI?
In un recente articolo, Roberto Perotti scrive di non essere d’accordo con la proposta di una espansione monetaria e fiscale coordinate nell’area dell’euro, attuate tramite una temporanea riduzione delle tasse finanziata con emissione di moneta. Roberto Perotti non mette in discussione l’efficacia della proposta nello stimolare la domanda aggregata. Ma sostiene che un’espansione temporanea del deficit di bilancio dell’ordine del 5 per cento del Pil non possa essere riassorbita in modo credibile attraverso un piano di tagli futuri della spesa. E afferma che riassorbire un taglio delle tasse di oggi attraverso aumenti di tasse future sarebbe destabilizzante, economicamente e politicamente.
Le politiche avviate negli Stati Uniti e nel Regno Unito durante la grande recessione contraddicono la seconda parte dell’argomentazione di Perotti, come mostra la tavola qui sotto. Gli Stati Uniti hanno fatto crescere il loro deficit di bilancio di quasi il 7 per cento del Pil in un anno, attraverso una combinazione di maggiori spese e minori entrate. Meno della metà di questo aumento è dovuta all’effetto degli stabilizzatori fiscali, il resto riflette scelte politiche discrezionali.
Negli anni successivi questa espansione del bilancio federale è stata riassorbita. In parte perché l’aumento del deficit era riconducibile a misure “una tantum”, adottate per salvare alcune istituzioni finanziarie; in parte, il riequilibrio è avvenuto in modo automatico con la ripresa dell’economia; e in parte è stato ottenuto attraverso cambiamenti nella politica di bilancio, come ad esempio il “Sequester” del 2013. Al netto degli effetti degli stabilizzatori automatici, le spese federali si sono ridotte di più del 2,5 percento del Pil tra il punto più basso del ciclo economico e oggi, mentre le entrare federali (sempre al netto degli stabilizzatori automatici) sono cresciute di circa il 3 per cento del Pil durante lo stesso periodo (fonte: Congressional Budget Office).
Nel Regno Unito l’espansione del deficit è stata simile a quella degli Stati Uniti: + 6,4 per cento in un solo anno, anche in questo caso ottenuta attraverso una combinazione di maggiore spesa e minori entrate fiscali, e per i due terzi dovuta a decisioni di policy. L’espansione fiscale è stata poi completamente riassorbita nel periodo 2010-2013, con circa metà della contrazione (56 per cento) dovuta a misure di policy, quasi interamente sul lato della spesa.
Nell’Eurozona l’espansione fiscale del 2008-2009 è stata minore – con il disavanzo complessivo dell’area che ha registrato un aumento del 4,2 per cento del Pil, circa due terzi di Stati Uniti e Regno Unito. Metà di questa espansione è stata ottenuta attraverso misure di policy. Come nel Regno Unito, l’espansione fiscale è stata in seguito completamente riassorbita, ma con due differenze significative. Le misure discrezionali prese per realizzare la contrazione sono state di un ordine di grandezza doppio rispetto a quelle che hanno accompagnato l’espansione: una contrazione del 4 per cento del Pil nel periodo 2010-2014 rispetto a una espansione discrezionale pari al 2 per cento del Pil nel 2008-2009. Ma quello che è ancora più importante è che lo stimolo di politica fiscale è stato pro-ciclico, in quanto è stato attuato nel mezzo della crisi di debito sovrano che ha ristretto il credito e aumentato l’incertezza economica nel Sud dell’Europa. Inoltre, in molti paesi ha preso solo la forma di un’impennata delle tasse. Il risultato sono stati due anni di recessione che hanno eroso parte dei miglioramenti di bilancio.
C’è un consenso quasi unanime tra gli economisti sul fatto che le politiche anti-cicliche messe in atto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, accompagnate da un eccezionale allentamento monetario, abbiano contribuito a stabilizzare le fluttuazioni cicliche e spieghino la ripresa molto più veloce di queste economie rispetto all’Eurozona (sebbene l’epicentro della crisi finanziaria sia stato proprio nei paesi anglosassoni e non nell’Europa continentale). L’affermazione che, nelle condizioni attuali, una politica fiscale anticiclica accompagnata da quantitative easing sia economicamente destabilizzante è quindi difficile da comprendere, anche se fosse realizzata interamente attraverso riduzioni di imposte non accompagnate da tagli di spesa futuri.
Come si è visto, nei paesi anglosassoni il ritorno della crescita ha contribuito in maniera rilevante a riassorbire i disavanzi. E questo è esattamente il punto: accadrebbe lo stesso anche nell’Eurozona.
Tra il 2009 e il 2013, dopo che l’output gap nell’Eurozona è passato dal +3,2 per cento al -3 per cento, il saldo di bilancio complessivo aggiustato per il ciclo si è ridotto di circa 4 punti percentuali di Pil. In alcuni paesi, la restrizione pro-ciclica è avvenuta principalmente attraverso tagli alla spese (in Spagna in particolare) ed è stata più innocua. Altrove, come in Italia, si è basata interamente su un inasprimento delle tasse e ha prodotto una grave e duratura recessione. Parte del taglio alle tasse che proponiamo semplicemente cancellerebbe gli aumenti pro-ciclici delle imposte varati in questi paesi al culmine della crisi del debito sovrano. Quando redditi e prezzi cominceranno di nuovo a salire, una parte dell’espansione di bilancio si ridurrà automaticamente senza la necessità di alcun intervento, come è avvenuto negli Usa e nel Regno Unito. Se l’elasticità del bilancio al ciclo fosse simmetrica (non è necessariamente così) e utilizzando i numeri del deterioramento di bilancio sperimentato nell’area euro tra il 2007 e il 2009 (un calo ciclico del bilancio, cioè al netto degli interventi, del 2 per cento del Pil, a fronte di un peggioramento dell’output gap del 6,6 per cento), un azzeramento dell’output gap dal livello attuale (-3,8 per cento alla fine del 2013) migliorerebbe automaticamente il deficit dell’Eurozona dell’1,2 per cento del Pil, un numero relativamente piccolo, ma non trascurabile.
AZZARDO MORALE E CREDIBILITÀ DI FUTURI TAGLI ALLA SPESA
Roberto Perotti ripropone inoltre la tesi secondo la quale politiche monetarie e fiscali non stringenti creerebbero un azzardo morale, in particolare nei paesi del Sud Europa. Non c’è dubbio che i Governi cdi Italia e Francia potrebbero non avere la volontà politica, o la maggioranza in Parlamento, per portare avanti le importanti riforme strutturali che sarebbero nell’interesse di lungo periodo di questi paesi. Ma non è per niente certo che prolungare la depressione sia la ricetta migliore per favorire una maggiore disponibilità a realizzare le riforme. Anzi, è molto probabile che sia vero il contrario, per due motivi. Primo, una stagnazione ancor più lunga e un più alto tasso di disoccupazione possono solo rafforzare i partiti più radicali e populisti in tutta Europa. La recente crescita del Movimento 5 Stelle in Italia e dei sentimenti anti-euro in Francia non sono avvenuti per caso, sono la conseguenza dei fallimenti economici del progetto europeo. Secondo, l’opposizione politica ai tagli alla spesa e alle riforme strutturali tende a essere più forte quando l’economia è depressa, perché gli elettori percepiscono tali misure come veicoli di un ulteriore abbassamento della domanda aggregata e di un aumento dei licenziamenti.
La sequenza corretta, dal punto di vista sia economico che politico, è dunque una sostituzione intertemporale: tagli alle tasse espansivi ora per far ripartire la crescita e tagli alla spesa via via che l’economia si riprende. Per dare credibilità alle misure future, i tagli di spesa potrebbero essere votati subito dal Parlamento, rimandandone però avanti nel tempo l’entrata in vigore, e con un impegno di legge (una clausola di salvaguardia) ad alzare le tasse di un ammontare corrispondente se i tagli alla spesa dovessero essere abbandonati.
ESISTE UNA STRATEGIA ALTERNATIVA?
La strategia alternativa suggerita da Perotti – passi incrementali e simultanei per ridurre spesa e tassazione allo stesso tempo – può funzionare in tempi normali, ma è politicamente troppo difficile da percorrere nelle attuali circostanze. Inoltre, e più importante, non coglie assolutamente il punto centrale: in questo momento abbiamo bisogno di un importante sforzo coordinato per far ripartire la domanda aggregata nell’Eurozona. Non si può lasciare questo compito alla sola Bce, pena il fallimento.
Il nuovo presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha proposto di aumentare gli investimenti pubblici per un totale cumulato di 300 miliardi di euro nei prossimi anni. Tuttavia, è probabile che anche questa strategia non riesca nell’intento, perché la spinta alla domanda aggregata arriverebbe troppo tardi e perché le risorse sono troppo scarse per fare la differenza (il ministro delle Finanze della Germania, Schauble, ha già ridotto la cifra totale, lasciando intendere che la somma complessiva dovrebbe includere i fondi strutturali e dovrebbe essere finanziata anche dal settore privato).
L’intervento di Mario Draghi a Jackson Hole, il suo riconoscimento che la crescita in Europa è vincolata dalla carenza di domanda, che la politica appropriata per allentare i vincoli è uno sforzo coordinato di politica monetaria e fiscale, e che la politica monetaria può giocare solo il ruolo di accompagnare la crescita, ma può difficilmente esserne il motore, ha cambiato il panorama politico. Se i governi dell’area euro non colgono questa opportunità e continuano a cercare scappatoie, passeranno alla storia come i responsabili della distruzione dello sforzo, che dura da sessanta anni, per costruire un continente senza guerre. Sfortunatamente sembrano proprio determinati a farlo.
Tabella 1a: espansione fiscale negli Usa durante la grande recessione
Fonte: 2014 Economic Report of the US President, I numeri del 2014 sono previsioni. La fonte per il deficit aggiustato per il ciclo è il Congressional Budget Office e il numero si riferisce all’anno fiscale (anziché solare).
Tabella 1b: espansione fiscale nel Regno Unito durante la grande recessione
General government. Fonte: Commissione europea, Cyclical adjustment of budget balances, Spring 2014. I dati per 2014 sono previsioni.
Tabella 1c: Espansione fiscale nell’area euro durante la grande recessione
Area euro (18 paesi), general government. Fonte: Commissione europea, Cyclical adjustment of budget balances, Spring 2014. I dati per il 2014 sono previsioni.
Berlusconi e Dell'Utri: “Mafia mafia mafia” Ecco gli audio choc di Emilio Fede
Chissà cosa penserà Marcello Dell'Utri nella sua cella del carcere di Parma quando leggerà lo sfogo di Emilio Fede registrato dal suo personal trainer Gaetano Ferri. Frasi rubate, nel 2012, che pesano però come macigni sulla storia imprenditoriale del Caimano di Arcore. «Guarda a Berlusconi cosa gli sta mangiando. Perché lui è l'unico che sa... Ti rendi conto che ci sono 70 conti esteri, tutti che fanno riferimento a Dell'Utri?». In altre parole, secondo le registrazioni del personal trainer ai danni dell'ex direttore del Tg4, il senatore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa avrebbe la disponibilità di 70 conti esteri.
Un tesoro nascosto? Sarà la magistratura ad accertarlo, visto che Ferri ha consegnato il nastro alla procura di Monza. Anche perché Emilio Fede, intimo amico di Silvio Berlusconi e con lui imputato nel processo Ruby (condannato a 7 anni in primo grado), sa molto del privato del leader di Forza Italia. «E' tutto falso, l'ho già detto ai magistrati e ho denunciato quel truffatore per calunnia e minacce gravi», è stata la secca replica all'Ansa di Emilio Fede che ha aggiunto: «Lui ha manipolato le mie dichiarazioni».
Intanto, quella registrazione i pm lombardi l'hanno inviata allaprocura di Palermo che ha istruito l'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia e che rappresenta l'accusa nel processo in corso che vede alla sbarra politici della prima Repubblica e boss di Cosa nostra. Non solo. L'intercettazione abusiva è stata depositata agli atti.
«C'è stato un momento in cui c'era timore... Che loro hanno messo Mangano (il boss conosciuto come lo stalliere di Arcore) attraverso Marcello (Dell'Utri ndr)», si sente nella registrazione. E ancora: «La vera storia della vicenda Berlusconi... mafia, mafia... soldi, mafia, soldi... Berlusconi». Secondo i nastri «Dell'Utri era quello che investiva» e l'unico che sa davvero la verità: «Chi può parlare? Solo Dell'Utri».
Da quanto emerge dalle registrazioni il giornalista avrebbe ragionato anche su fatti specifici, come un dialogo tra l'ex senatore e Berlusconi: «Mangano era in carcere. Mi ricordo che Berlusconi arrivando... 'hai fatto?'... 'sì sì... gli ho inviato un messaggio... gli ho detto a Mangano: sempre pronto per prendere un caffè. Era un messaggio per rassicurare lui su certe cose che non so». Dalla registrazione sembrerebbe che Fede chiuda con una lode al mafioso stalliere: «E devo dire che questo Mangano è stato un eroe. E' morto per non parlare».
La versione di Emilio Fede è che il personal trainer sia un truffatore. E che il nastro, prima di finire nelle mani della magistratura, gli fosse stato proposto dallo stesso personal trainer, che minacciava di renderlo pubblico. Fede, interrogato nel maggio scorso dai pm di Palermo che seguono il processo sulla trattativa, avrebbe riferito di un incontro nella villa di Arcore tra Berlusconi e Dell'Utri. Fede avrebbe spiegato agli inquirenti che Berlusconi, prima che Dell'Utri andasse via, gli chiese: «Hai novità? Mi raccomando ricordiamoci della sua famiglia, ricordiamoci di sostenerla». Il riferimento è a Mangano, all'epoca boss della famiglia mafiosa di Portanova, assunto nel 1974 tramite Dell'Utri come stalliere a villa San Martino.
Ma perché sostenere la famiglia Mangano?, domandano i magistrati. «Chiedono riferimento su di te», avrebbe detto l'ex senatore al Caimano con Fede testimone. Ancora un riferimento allo stalliere, questa volta agli interrogatori cui è sottoposto e durante i quali gli stanno chiedendo dei suoi rapporti con Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Gli inquirenti collocano quell'incontro tra il '95 e il '96, quando l'uomo d'onore siciliano si trovava già in carcere.
Il signor Gaetano Ferri, ex autista e guardia del corpo dice di aver registrato di nascosto in alcuni incontri nel 2012 con Emilio Fede, che gli avrebbe fatto confidenze molto pesanti su Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Ferri ha consegnato le sue registrazioni alla procura di Monza, che le ha trasmesse ai magistrati di Palermo che ora le hanno trascritte per depositarle nel processo Stato-Mafia, dove Dell'Utri è tra gli imputati.
Primo spezzone: la voce attribuita a Fede è disturbata, ma si sente parlare dei rapporti tra Berlusconi, Dell'Utri e Cosa Nostra, nonché del ruolo di Vittorio Mangano, il mafioso assunto nel 1974 nella villa di Arcore. L'audio originale è molto disturbato. Ecco il testo delle frasi più comprensibili:
«Dell'Utri... La mafia è la spada di Damocle... Vent'anni fa c'era un carabiniere mio amico che gli diceva tutte le intercettazioni di Berlusconi e Craxi… Berlusconi nasce con l'edilizia.... Berlusconi non c'aveva una lira per costruire... Un inizio straordinario, di sacrificio.... Poi Dell'Utri si avvicinò a lui: possiamo prendere dei soldi... Mangano arriva attraverso Marcello... Davigo ha chiesto la mia assoluzione... Si incontravano, Dell'Utri, Berlusconi e Mangano, al West Palace Hotel... Mafia, mafia, mafia.... Dell'Utri era quello che faceva l'investimento dei soldi mafiosi...».
«Io qualche cosa la so... Quando Dell'Utri tornava... Mi ricordo che Mangano era in carcere e Berlusconi gli diceva: hai fatto... E Dell'Utri diceva: sempre pronto a prendere un caffè, che era un messaggio in codice... Mangano è veramente stato un eroe, è morto per non parlare.... Dell'Utri andò in carcere a trovare Mangano, poi al ritorno tranquillizzò Berlusconi, tutto a posto, ha detto che il caffè era a posto... Era il messaggio in codice».
Secondo spezzone, è sempre Fede a parlare: «Questo mio amico Samory della banca... Mi diceva l'altra sera che ha dato soldi a Dell'Utri, magna magna, dieci milioni di euro per mettermi in lista, per entrare in politica...Dice che è proprio un grosso delinquente, ha un fratello, Alberto, che è un pregiudicato, non a livelli di Mangano, però... L'ho aiutato a diventare vicecoordinatore di Forza Italia in Emilia. E lui mi dice: è veramente un grosso mafioso. Dico: minchia...».
Terzo spezzone: «Dell'Utri lo ha fatto onorevole per evitare, per risparmiargli l'arresto, che finisca di nuovo dentro... Conosciamo segreti tutti e due... Però io non me ne approfitto...».
In questo spezzone la voce attribuita a Fede cita anche Ruby, ma l'audio è molto disturbato : «Lui (Berlusconi) lo sa che gli voglio bene, non può pensare che io lo tradisco... Io so tutto di lui, quando scopava, dove scopava, con il dito... Mi chiamava all'una e mezza di notte...».
A volte mi chiedo se ai nostri governanti importi davvero qualcosa di qualsivoglia argomento, a parte le questioni legate al potere e alla sua conservazione. Questo, in un’Italia nella quale il tarlo della corruzione, con i suoi 60 miliardi di euro sottratti ogni anno all’economia sana, pesa come un macigno: ad esempio solo con una tangente della vicenda che ha coinvolto la Fondazione Maugeri, si potrebbero pagare 2.000 assegni di ricerca. Se i politici perdessero il sonno per questo, allora di persone come Raffaele Cantone (presidente, dal marzo 2014, dell’Autorità Nazionale anticorruzione) ne verrebbero nominate cinquanta. Invece, chi potrebbe combattere efficacemente questa piaga raramente viene nominato nei posti chiave oppure, come nel caso di Cantone, lo si sceglie per avere un nome illustre con il quale calmare l’opinione pubblica, ma poi si esita a dargli poteri concreti. Purtroppo, oltre a non essere interessata, la politica non conosce a fondo la problematica: chi, per anni, ha negato che le mafie fossero presenti anche al Nord? Meglio far finta di nulla, per non allarmare la popolazione. Così, se il nemico non c’è, nessuno lo combatte e, se nessuno lo combatte, lui fa ciò che vuole. La forza delle mafie risiede nel patrimonio di relazioni sociali tessute: se non si capisce questo non si riuscirà mai a combatterle efficacemente.
Processo Ruby: oltre il cabaret mediatico
Dopo la sentenza di assoluzione in appello per Silvio Berlusconi è partito un coro meschino di accuse a Ilda Boccassini, il magistrato che ha condotto l'inchiesta che ha dato origine al processo.
Le sentenze vanno accettate ma allo stesso tempo non si può cedere alla logica poco democratica, secondo la quale non potrebbero essere commentate. Come ogni azione umana, come ogni azione pubblica che produce effetti sulla vita di ciascuno, anche le sentenze possono essere commentate.
La magistratura è un ambito ben più complesso di ciò che si vede, di ciò che si vorrebbe mostrare e il berlusconismo, nei suoi effetti più nefasti, ha reso poco credibile ogni critica al suo operato, poiché ne ha cristallizzato l'idea su un piano di opposizione politica oggi ancor più insostenibile.
Ilda Boccassini ha gestito con rigore il suo lavoro, mentre il modus operandi di molti era quello di condividere atti di indagine, con l'obiettivo di ottenere in questo modo protezione mediatica. Non è mai stato il suo caso. In una democrazia sempre più marcia, Ilda Boccassini non ha mai occhieggiato alle facili praterie infuocate dell'antipolitica, nelle quali tutte le istituzioni sono schifose e solo la magistratura è sana. Non è necessario ricordare semplicemente la sua presenza a Palermo, la sua vicinanza a Falcone e l'infuocato j'accuse formulato all'indirizzo di colleghi imbelli e poco degni del proprio ruolo, poiché è nella storia recentissima il segno del suo operato, con i fondamentali risultati giudiziari di quella inchiesta "Infinito", che ha mostrato quanto capillare sia il potere della 'ndrangheta in Lombardia.
È per questa ragione che oggi non mi interessa aggiungere la mia voce a quella di chi ha voluto commentare gli esiti del processo Ruby, tra primo e secondo grado. Mi interessa piuttosto difendere un metodo investigativo che non ha mai cercato le luci della ribalta e che ha portato a quella sentenza di primo grado emessa da un Tribunale, da un collegio di magistrati e non certo dalla Procura della Repubblica. In questi anni ho letto atti relativi a decine, forse centinaia di inchieste, talvolta mediocri, talvolta superficiali, talvolta costruite sin dal principio contando sull'appoggio della stampa. Ilda Boccassini non è questo, poiché non è mai stata questo la tradizione cui si rifà.
L'interpretazione del diritto non è univoca, altrimenti non sarebbe interpretazione, e dunque il dibattito sul sovvertimento della decisione in secondo grado è legittimo e visto il soggetto coinvolto anche necessario. Detto ciò, voler leggere e contestualizzare politicamente questa sentenza, o peggio, voler giocare, come è sempre accaduto in questi anni, alla sfida tra giustizialisti e garantisti - laddove in Italia questi ultimi, quasi sempre, non sono altro che soggetti diversamente giustizialisti - oltre che inutile è dannoso. Poiché questa incultura allontana ancora di più una seria riforma della giustizia che tenga conto delle difficoltà del sistema, ma che non umili il patrimonio di conoscenza e metodo della magistratura.
E da questo punto di vista il metodo di lavoro di Ilda Boccassini, la sua capacità di stare alla larga da un rapporto anomalo con i media, tratto distintivo vero della incultura di questo Paese, è un punto di partenza. Un punto di partenza e si spera, nella sua sistematizzazione, un punto d'arrivo. Perché bisogna sempre partire dalle persone serie. Lasciando alla dimensione cabarettistica quei pagliacci, solerti servitori di un padrone ormai alla deriva, che a volte sembrano avere la testa solo per poter indossare parrucche dal colore sgargiante in quel momento di moda.
Il nuovo Senato: come funziona e cosa cambia con la riforma del governo Renzi
La riforma del Senato del governo Renzi continua la sua marcia non priva di intoppi, marcia che dovrebbe portare il testo all'esame dell'aula a partire da lunedì prossimo. Ecco cosa cambia e come funziona il nuovo Senato, dal numero di senatori che siederanno a Palazzo Madama, fino alle regole per la loro elezioni e i poteri dei senatori.
Quanti saranno i senatori? A Palazzo Madama siederanno in 100 in luogo dei 315 di oggi, così ripartiti: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci, 5 personalità illustri nominate dal presidente della Repubblica. La durata del mandato di questi ultimi sarà di sette anni e non sarà ripetibile. Andranno quindi a sostituire i senatori a vita e saranno scelti con gli stessi criteri: "cittadini che hanno illustrato la patria per i loro altissimi meriti".
I senatori saranno eletti? Non saranno più eletti direttamente dai cittadini; si tratterà invece di una elezione di secondo grado che vedrà approdare in Senato sindaci e consiglieri regionali. Il sistema sarà proporzionale per evitare che chi ha la maggioranza nella regione si accaparri tutti i seggi a disposizione. Quale sarà lo stipendio dei senatori? I consiglieri regionali e i sindaci che verranno eletti al Senato non riceveranno nessuna indennità, il che dovrebbe portare allo Stato un risparmio di oltre mezzo miliardo di euro ogni anno.
Quali sono i poteri del nuovo Senato? Palazzo Madama avrà molti meno poteri e verrà superato il bicameralismo: innanzitutto non potrà più votare la fiducia ai governi in carica, mentre la sua funzione principale sarà quella di "funzione di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica", che poi sarebbero regioni e comuni. Potere di voto vero e proprio invece il Senato lo conserverà solo riforme costituzionali, leggi costituzionali, leggi elettorali degli enti locali e ratifiche dei trattati internazionali.
Il ruolo consultivo del Senato. Il Senato avrà però la possibilità di esprimere proposte di modifica anche sulle leggi che esulano dalle sue competenze. Potrà esprimere, non dovrà, e sarà costretto a farlo in tempi strettissimi: gli emendamenti vanno consegnati entro 30 giorni, la legge tornerà alla Camera che avrà 20 giorni di tempo per decidere se accogliere o meno i suggerimenti. Più complessa la situazione per quanto riguarda le leggi che riguardano i poteri delle regioni e degli enti locali, sui quali il Senato conserva maggiori poteri. In questo caso, per respingere le modifiche la Camera dovrà esprimersi con la maggioranza assoluta dei suoi componenti. Il Senato potrà votare anche la legge di bilancio, le proposte di modifica vanno consegnate entro 15 giorni e comunque l'ultima parola spetta alla Camera.
Se Milanese inizia a sputare....i nomi....!!!!!
L’ex consigliere politico del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, Marco Milanese, è finito in carcere per l’accusa di aver ricevuto una tangente da 500 mila euro da parte di uno degli imprenditori che partecipavano ai lavori di costruzione del Mose. Per difendersi dalle accuse dei magistrati Milanese ha spiegato come il finanziamento di questa infrastruttura fu un sostanziale favore del ministro dell’Economia di allora, Giulio Tremonti, alla Lega Nord e al governatore del Veneto del Carroccio, Luca Zaia. Siccome non era possibile recuperare 400 milioni di euro da parte del ministero delle Infrastrutture per realizzare l’opera che serve a proteggere Venezia dalle acque alte, servì un intervento di Tremonti che trovò questi fondi all’interno del bilancio dello Stato. Il finanziamento da 400 milioni di euro fu però erogato solo dopo che si trovò un accordo per la candidatura di Luca Zaia alla presidenza del Veneto. Tremonti, come ha raccontato Milanese ai magistrati, decise di stanziare i fondi del Mose per ricompensare l’appoggio della Lega Nord nei suoi confronti. Prima delle regionali 2010 la Lega Nord, all’epoca in pieno boom demoscopico e trionfatrice alle elezioni europee, chiese al Pdl la guida di due delle tre regioni settentrionali controllate dal centrodestra, Piemonte e Veneto. La battaglia per la “conquista” del Veneto fu particolarmente aspra, visto che il presidente di allora, Giancarlo Galan deputato ora indagato nell’ambito del Mose, era assolutamente indisponibile a lasciare la guida della Regione. Dopo che Galan cedette e la candidatura per la presidenza del Veneto fu assicurata a Luca Zaia, Tremonti acconsentì al finanziamento del Mose secondo la ricostruzione di Milanese. L’ex consigliere politico del ministro dell’Economia, ora in carcere, rimarca come Tremonti gli affidò l’incarico di gestire la partita del Mose a causa dell’eccessiva interferenza di Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova.
Scrutando nel torbido pantano della politica italiana, malsana e corrotta, ogni giorno spuntano nomi, sempre più eccellenti....Italiani, ma avete capito chi ci ha portati in questa crisi peggiore di un marasma pantanoso di cui non si vede fondo nè uscita? Avete capito chi avete votato fino ad oggi?
Renzi, più flessibilità ... sogni o realtà?
Da quanto si apprende dalla cronache politice, l’accordo tra Renzi e Merkel a Bruxelles, parla di più flessibilità nel rigore. In realtà riguarda i soli cofinaziamenti nazionali ai fondi Ue esclusi dal conteggio del deficit e poco altro. Nulla del fiscal compact, né dell’austerità, sembra essere stato toccato. L'obiettivo di Renzi nell'incontro con la Merkerl sarebbe dovuto essere quello di riuscire a trasformare il bastone del rigore nella carota dell’austerità flessibile.
Ma, in realtà, Renzi sta solo cercando di rinviare le scadenze e non si azzarda a toccare le regole. Durante la campagna delle primarie aveva più volte evocato la possibilità di cambiare i trattati. Ora si limita a chiedere un’austerità un po’ più “flessibile”. In sostanza, la trattativa si concentra su un rinvio di un anno o due degli obiettivi di pareggio del bilancio. Che la richiesta venga accolta è da verificare, visto che Commissione Ue ed Ecofin risultano tuttora ostili. Ma anche ammesso che Renzi riesca a spuntarla, otterrebbe solo un margine in più per il deficit di 0,2 punti percentuali. Una conquista risibile rispetto alla gravità della situazione.
Da questo punto di visto il premier torna dal vertice con una illusione piuttosto che una speranza cosa comune negli ultimi anni della difficile situazione politica italiana.
Nel corso di questi anni abbiamo registrato una progressiva divaricazione tra le narrazioni politiche e la realtà dei fatti. Lo dimostrano gli errori sistematici commessi dalla stessa Commissione Ue sulle previsioni dell’andamento del Pil nell’Eurozona: nel caso dell’Italia sono stati anche superiori ai tre punti percentuali. La mia sensazione è che Renzi stia addirittura accentuando questo iato, anziché dare un contributo per rendere le parole della politica un po’ piu in linea con i processi reali.
Alla luce di quanto detto la crescita è una speranza davvero infondata per il 2014.
Per dare un’idea di quanto sia improbabile, basta notare che gli obiettivi di bilancio dell’esecutivo sono stati fissati sulla base di una già modesta crescita dello 0,8% nel 2014. Ebbene, questa previsione è già stata smentita dagli ultimi dati. Nel momento in cui ci renderemo conto che l’andamento effettivo del Pil è peggiore del previsto, anche quel po’ di margine sul deficit chiesto da Renzi verrà bruciato.
A Bruxelles sembra essere passata l’idea che l’ammorbidimento del rigore fiscale avverrà man mano che la Commissione Ue riscontrerà il grado di avanzamento delle «riforme».
Ma in realtà non è nemmeno detto che questa idea sia passata. Al momento c’è solo una generica dichiarazione di apertura da parte della Merkel. Ma nero su bianco abbiamo due documenti della Commissione Ue e dell’Ecofin che si muovono in direzione opposta rispetto a quanto auspicato da Renzi. Per quanto il premier chieda briciole, la trattativa per ottenerle si annuncia comunque difficile. In cambio, oltretutto, il governo farà riforme che rispondono a due tipologie. La prima è relativa all’assetto istituzionale: accrescimento ulteriore del potere dell’esecutivo in nome della decantata governabilità. È un processo che implica un’erosione ulteriore dei margini di esercizio della democrazia.
La seconda invece è una vecchia conoscenza: flessibilità del mercato del lavoro. Dopo il fallimento della dottrina della “austerità espansiva”, cioè della idea per cui l’austerità avrebbe garantito la ripresa economica, ora si punta su altre dosi di precarizzazione dei contratti di lavoro.
Nel “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times nel 2013, promosso con Riccardo Realfonzo e sottoscritto da Rodrik, Galbraith, Gallegati ed altri, i maggiori esponenti dell'economia mondiale annunciavano che l’Europa sarebbe passata dall’austerità espansiva alla precarietà espansiva.
Ed in eggetti la previsione è stata confermata. Ci dicono che la nuova onda di precarizzazione del lavoro porterà crescita dell’occupazione. Ma per capire davvero dove porterà la riforma Poletti basta guardare i dati dell’Ocse e dell’Fmi: non vi è nessuna conferma della tesi per cui più precarietà determina più occupazione. Se è vero che i contratti flessibili inducono le imprese ad assumere un po’ di più nelle fasi di espansione economica, è altrettanto vero che questi contratti permettono alle imprese di distruggere quegli stessi posti di lavoro nella recessione. L’effetto netto di queste politiche è zero. Eppure il ministro Padoan, che viene dall’Ocse e conosce questi risultati, insiste con la fantasia secondo cui la precarizzazione accresce l’occupazione. Siamo di nuovo in presenza di uno scarto tra narrazione e realtà.
Con la crescita a zero è facile prevedere che cosa accadrà nei prossimi mille giorni del governo. Ossia quello che si è già verificato negli ultimi anni. Ancora una volta, rileveremo una distanza tra obiettivi e risultati, sia dal punto di vista del deficit pubblico che da quello della crescita economica e dell’occupazione. L’auspicio di Renzi, secondo il quale si può agire nell’attuale quadro istituzionale europeo per uscire dalla crisi, andrà a sbattere contro il muro dei fatti.
Sembra ormai escluso un processo di riscrittura dei trattati europei, come anche una revisione del ruolo della Bce. E' facile prevedere anche quale sarà il futuro economico e sociale dell’Europa meridionale nei prossimi cinque anni.
Infatti dall’inizio della crisi i paesi del Sud Europa hanno perso oltre 6 milioni di posti di lavoro. In Germania c’è stato invece un aumento di 1,5 milioni di unità. Queste divaricazioni delineano un processo di «mezzogiornificazione» europea, che riproduce su scala continentale il tremendo dualismo economico che ha condizionato i rapporti tra Nord e Sud Italia.
In questo scenario prevedo nuovi successi per i movimenti reazionari e xenofobi. Temo che i risultati delle elezioni europee siano solo l’inizio di un lungo ciclo politico, in cui ci troveremo nella tenaglia di due tipologie di destre: una europeista e tecnocratica nella quale si inserisce anche l’attuale compagine che sostiene il governo italiano; l’altra ultranazionalista e potenzialmente neo-fascista, come il Fronte nazionale in Francia. Mentre il lavoro e le sue residue rappresentanze sembrano paralizzate e silenti, in modo analogo a quanto già accaduto nei momenti più cupi della storia europea.
Eppure ci sono ancora movimenti, associazioni e soggetti politici che cercano di modificare radicalmente la struttura regolamentare della UE ed il suo negativo impatto sociale, politico ed economico registrato da molti anni a questa parte.
Così Il 3 luglio è partita la raccolta firme sul referendum contro il Fiscal Compact che sembra essere il primo tassello da scradinare per creare una europa unita che abbia uguali prospettive di crescita per tutti gli stati membri.
Ma c'è da dire subito che sul piano tecnico-giuridico l’iniziativa si muove lungo un sentiero impervio. Sul piano politico, se passa, potrebbe aiutare ad accelerare le contraddizioni di un quadro europeo che in prospettiva resta insostenibile. Le contraddizioni, tuttavia, potranno risultare feconde solo se le singole iniziative di mobilitazione saranno inserite in progetti politici più generali. Personalmente credo che i tempi siano maturi per avviare una critica di quello che talvolta ho definito “liberoscambismo di sinistra” e per promuovere un rilancio, in chiave moderna, del tema del piano.
Il Governo delle Immunità... ripristinate...
In mattinata c'era stata l'approvazione della norma che introduce in Costituzione il cosiddetto "statuto delle minoranze", garantendo "i diritti delle minoranze parlamentari". Per quanto riguarda il nuovo Senato delle autonomie è stata approvata una norma che stabilisce l'incompatibilità tra i membri delle Giunte regionali e alcune cariche in Senato. Nella seduta di questa mattina sono stati approvati gli emendamenti che modificano gli articoli dal 60 al 67 della Costituzione, bocciati tutti i subemendamenti, tranne quello dell'ex pentastellato Francesco Campanella (Misto) che impone ai senatori la presenza durante i lavori delle commissioni.
Molto soddisfatta il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, che ipotizza si possa arrivare in Aula la prossima settimana "se i lavori proseguono con questo ritmo". Ma dal blog di Beppe Grillo si continua a tuonare contro il patto del Nazareno: un post firmato dal professore Paolo Becchi contesta la legittimità di un Parlamento "eletto con una legge incostituzionale" che vuole modificare "addirittura la struttura bicamerale del Parlamento e, con essa, inevitabilmente, la forma di governo" e boccia la riforma Renzi che "elimina ogni meccanismo di legittimazione diretta e democratica dei senatori" ed "elimina il bicameralismo perfetto costruendo una Camera elitaria, composta da sindaci e governatori delle Regioni". Secondo Becchi bisogna invece concentrarsi sulla nuova legge elettorale, proprio come aveva suggerito ieri il vicepresidente della Camera pentastellato Luigi Di Maio, che aveva chiesto a Renzi un nuovo incontro sul tema in settimana. "Soltanto un altro Parlamento, se non un'Assemblea costituente, potrebbe avere l'autorevolezza e la legittimazione politica per decidere sul superamento del bicameralismo perfetto e sulla rideterminazione dei rapporti Parlamento-Governo e Stato-Regioni" spiega Becchi.
L'iter delle riforme per ora sembra procedere senza intoppi anche perchè per il momento non sono stati affrontati quegli articoli su cui ancora c'è dissenso all'interno delle forze politiche, in particolare il nodo del Senato elettivo. Intanto è salito a 20 il numero dei senatori che voteranno in Aula a favore di un Senato elettivo. Oggi si è aggiunto al gruppo Antonio Azzollini, di Ncd, presidente della Commissione Bilancio di Palazzo Madama.
Solo dopo questa giornata, con un probabile faccia a faccia Renzi-Berlusconi in serata se necessario, la Commissione potrà procedere con l'esame e il voto degli emendamenti che modificano gli articoli 56, 57, 58 della Costituzione, che affrontano infatti la composizione di Camera e Senato e in particolare le modalità di elezione dei componenti del Senato. Ma la giornata cruciale sarà giovedì, quando si deciderà seriamente la sorte del ddl. Silvio Berlusconi infatti riunirà nel primo pomeriggio deputati e senatori di Forza Italia per riportare la fronda interna al partito, guidata da Augusto Minzolini, sulla strada dettata dal patto del Nazareno. Nella stessa giornata il premier Matteo Renzi incontrerà il Movimento 5Stelle per discutere di legge elettorale. C'è attesa per la lettera pubblica al Movimento 5 stelle sul tema legge elettorale annunciata ieri del premier al termine del Consiglio dei Ministri. La lettera dovrebbe essere divulgata in giornata
La decisione di lasciare così com'è l'articolo 68 della Costituzione che riguarda l'immunità di parlamentari ha avuto «una maggioranza molto larga. Anche Forza Italia e Lega hanno votato a favore». Lo sottolinea il ministro Maria Elena Boschi interpellata dai giornalisti. E il governo? «Ha dato parere favorevole» alla luce del dibattito che si è svolto in commissione.
Il commento del sanatore 5 Stelle Vito Crimi:
Approvato l'emendamento che ripristina l'immunità per i senatori, a firma Calderoli-Finocchiaro. Avevamo chiesto che l'abrogazione di ogni tipo di immunità venisse estesa anche ai deputati... ma sul tema il governo ha detto che ha accolto le sollecitazioni pervenute dalla commissione (dal partito unico PD-FI). L'unica cosa accolta... su tutto il resto sono andati dritti come un treno calpestando ogni idea diversa.
Renzi, la riforma della giustizia (solo un'altra utopia)...tra promesse e realtà...
Semplificazione del processo civile, per arrivare in un anno al giudizio di primo grado e al dimezzamento dell’arretrato, riforma del Csm, responsabilità civile dei magistrati «modello europeo» e una normativa del falso in bilancio «degna di questo nome»: «per due mesi vogliamo discutere della giustizia in modo non ideologico, sarà una discussione la più filosofica, concettuale e astratta prima di approvare la riforma per coinvolgere l’Italia su questo tema». È una riforma in dodici punti, quella che dovrà vedere la luce a settembre, secondo il timing fissato dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
Al termine del Cdm, durato circa un’ora e mezza e preceduto in mattinata da un incontro tra il premier e il ministro Andrea Orlando, è Renzi ad illustrare i punti fermi della «rivoluzione» e a chiarire che il governo vuole inaugurare una fase nuova anche nel metodo: i testi sono pronti ma aperti alla discussione. Una novità per un tema tanto conteso come la giustizia, tanto che il premier esordisce con una sottolineatura: «Sono 20 anni che sulla giustizia si litiga senza discutere. Noi vogliamo cambiare metodo e discutere nel merito e possibilmente senza litigare».
Il focus è innanzitutto sul processo civile, «al termine dei mille giorni delle riforme noi puntiamo al processo civile in un anno per il primo grado», ha subito detto Renzi, che punta al dimezzamento dell’arretrato, arrivato a 5,2 milioni di processi pendenti. Attraverso la semplificazione e la «degiurisdizionalizzazione», parola che significa che le controversie si possono risolvere anche non davanti al giudice, ma attraverso la negoziazione assistita e il ricorso a camere arbitrali. La strada maestra, per il ministro Orlando è l’informatizzazione, unita a «due canali prioritari per famiglie e imprese». A questo proposito Orlando ha anche annunciato che «per separazioni e divorzi, se consensuali, non servirà più andare davanti al giudice».
Il governo riformerà anche il Csm, ovviamente dopo le imminenti elezioni che porteranno al rinnovo delle cariche. «Chi giudica non nomina, chi nomina non giudica», è la formula scelta dal premier per spiegare lo sdoppiamento delle funzioni dell’organo di autogoverno della magistratura, e il principio su cui ci si baserà «è quello che si fa carriera per merito e non per appartenenza di corrente». Sul tema caldo della responsabilità dei magistrati, il governo punta ad un «modello europeo»: quello attuale, ha osservato Orlando, «non ha funzionato, dobbiamo togliere quei tappi che hanno portato a questo». Il ministro ha poi ribadito di essere contrario alla responsabilità diretta dell’emendamento Pini - quello sulla responsabilità diretta dei magistrati, che «spinge al conformismo».
Sul fronte penale il governo metterà mano anche alla prescrizione e a reati economici, falso in bilancio e autoriciclaggio. Mentre «le intercettazioni sono l’unico argomento su cui non abbiamo pronta la norma», ha detto Renzi, smentendo i testi circolati: «Nessuno vuole bloccare le intercettazioni dei magistrati» ma valutare anche «con i direttori dei quotidiani» l’utilizzo.
I 12 PUNTI
Ecco in sintesi i 12 punti, alcuni sintetizzati per temi, della riforma che ora sarà aperta alla discussione per 2 mesi tra addetti ai lavori e cittadini.
- GIUSTIZIA CIVILE: la riduzione dei tempi punta a portare ad un anno il primo grado del procedimento civile. La riforma vuole poi portare a dimezzare l’arretrato con una corsia preferenziale per imprese e famiglia
- CSM: «chi giudica non nomina, chi nomina non giudica» ha detto Renzi spiegando che la carriera sarà legata al merito
- RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI sul modello europeo.
- RIFORMA DEL DISCIPLINARE DELLE MAGISTRATURE SPECIALI
- NORME CONTRO LA CRIMINALITÀ ECONOMICA (falso bilancio, autoriciclaggio)
- ACCELERAZIONE DEL PROCESSO PENALE E RIFORMA DELLA PRESCRIZIONE.
- INTERCETTAZIONI (diritto all’informazione e tutela privacy)
- INFORMATIZZAZIONE integrale del sistema giudiziario
- RIQUALIFICAZIONE del personale amministrativo.
Crisi & Debito pubblico inarrestabile! Eccone le cause che nessuno ci ha mai spiegato....
Ma qualcuno si è mai chiesto come mai il debito pubblico dopo anni e manovre finanziare votate all'austerity ed alla spending review continua ad aumentare inesorabilmente? E' di questi giorni la notizia che abbiamo sfondato il muro dei 2100 miliardi di euro...
Nel trentennio che va dal 1980 al 2011, il "Bel Paese", ha avuto un avanzo primario pari a 484 miliardi di euro. Nello stesso periodo ha pagato 2141 miliardi di euro di interessi. La differenza (pari a 1897 miliardi) rappresentava il debito pubblico italiano nel 2012, debito che oggi ha superato i 2100 miliardi. Questo debito genera interessi annuali per circa 70-80 miliardi di euro. Gli interessi che l’Italia paga, tecnicamente, sarebbero (sono) definibili come interessi da anatocismo, cioè noi paghiamo gli interessi sugli interessi. E’ un circolo senza fine dal quale il paese non può uscire (del resto i debiti sono concepiti all’uopo) e se mai fosse si ritroverebbe comunque spolpato all’osso e dunque senza alcuna possibilità di ripresa. Dico spolpato perché non avremo più nessuna base, cioè nessuna risorsa reale, su cui ripartire. Non credo comunque che questo succederà dal momento che i debiti sono sempre concepiti per non essere estinguibili onde tenere un paese alla mercé delle oligarchie finanziarie che tirano i fili del gioco del denaro.
L’immagine venduta dicevamo, è però che l’Italia si trova nella situazione in cui si trova perché “spende troppo” e quindi ha un deficit di bilancio. Questa immagine non è solo errata ma volutamente fuorviante. Nonostante la nostra situazione sia drammatica, paradossalmente l’Italia è il paese al mondo con il surplus di bilancio più alto. Questo, chiariamolo subito, non è che sia un bene in sé, perché il nostro surplus è dovuto principalmente ad una tassazione altissima che concorso all’affossamento del paese. Resta il fatto che l’Italia in virtù di questa tassazione altissima ed al conseguente surplus di bilancio che conosce da oltre vent’anni, dovrebbe perlomeno non avere il problema del debito. Che invece c’è, eccome! In breve, gli interessi si rincorrono e le politiche di austerità non servono a nulla se non, appunto, a spolpare il paese. I debiti, del resto, servono a questo: drenare ricchezza reale dalle popolazioni e quindi impoverirle e controllarle.
Il debito pubblico italiano è esploso tra il 1982 e il 1993 quando la spesa per interessi passò da 35 a 156 miliardi. La ragione di questo è il famoso “divorzio” tra la Banca d’Italia e il Tesoro. Il fatto fondamentale del “divorzio” fu il sollevamento per la Banca d’Italia dell’obbligo di comprare il debito pubblico (cioè i titoli di Stato). Da allora l’Italia si è finanziata sul mercato, cioè abbiamo preso denaro a prestito a tassi di interesse dettati dal mercato finanziario, mercato finanziario che ovviamente fa i suoi interessi. Il mercato finanziario, oltretutto, è principalmente estero. Prima l’Italia si finanziava a costo zero attraverso la Banca d’Italia.
Questo antefatto, che è la vera causa della situazione in cui ci troviamo, non è mai stato menzionato da nessun media di regime, e men che meno dalla Troika e dai governi (Monti, Letta e anche Renzi) che si sono succeduti dall’esplosione della crisi del debito. Affermare dunque che i media, la Troika e i governi sono tutti corresponsabili e parte del piano di spolpamento, non è fare affermazioni generiche e complottiste, cosa di cui qualche lettore mi accusa, bensì semplicemente affermare la realtà dei fatti. Oppure queste cose non le sanno?
La Bce, a differenza della Fed, della Banca centrale del Giappone e altre, non può acquistare i titoli di Stato (l’Unione europea glielo vieta, e già questo ci dice molto chiaramente a cosa serve, tra le altre cose, la UE). Però la Bce questi soldi li può prestare alle banche. La Bce, dall’inizio della crisi ha infatti prestato alle banche circa 3000 miliardi di euro a tassi di interesse vicini allo zero, banche che però non hanno riversato questi soldini nell’economia reale (e anche comprensibilmente dal loro punto di vista). Cosa ci hanno fatto allora le banche con questi soldi? Ci hanno acquistato, indovinate cosa, titoli di Stato che rendevano il 4% e anche oltre. Che beneficio ne hanno tratto i paesi da queste emissioni di denaro della Ue? Nessuna, è ovvio. I beneficiari sono stati unicamente le banche. Lo schema è chiarissimo.
DAL 30 GIUGNO POS PER TUTTI i COMMERCIANTI
Accolto dalle polemiche per le commissioni giudicate eccessive, da lunedì 30 giugno entra in vigore il decreto che obbliga tutti gli esercizi commerciali e le attività professionali a dotarsi di un bancomat. Nessuno potrà rifiutarsi di accettare un pagamento tracciabile superiore ai 30 euro. Un ottimo strumento per dissuadere dall'uso del contante e far emergere il nero che rappresenta il 17 per cento del Pil. Con un grosso limite: non prevede alcuna ammenda nei confronti dei trasgressori.
Il solito compromesso. "E' la solita norma all'italiana", commenta il Codacons. E' in realtà il solito compromesso: la sanzione è stata "dimenticata" perché installare e utilizzare un Pos, in Italia costa più caro che altrove. Secondo uno studio effettuato dalla Cgia di Mestre - tenendo conto delle condizioni praticate dai principali istituti - la spesa media per un imprenditore che incassa via Pos 100mila euro l'anno, varia infatti dai 1.183 euro previsti per chi si accontenta del modello base, ai 1.208 pagati dal commerciante, artigiano o professionista che sceglie il Pos cordless (senza fili), fino ai 1.240 versati da chi decide di avvalersi di un dispositivo Gsm. Cifre calcolate al netto, tenendo conto della deducibilità applicabili agli oneri in questione.
Di fatto spese di attivazione, commissioni mensili e commissioni sulle singole operazioni sono a carico di chi chiede l'installazione del Pos. Alcune banche concedono il dispositivo in comodato d'uso; diverse associazioni si sono già mosse per ottenere condizioni più vantaggiose rispetto a quelle standard (gli artigiani liguri della Cna, per esempio, hanno siglato un'intesa con le carte di pagamento Qui!Group), ma nella media i costi sono elevati e gli accordi mancanti. Lo ha ammesso lo stesso ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi che parlando alle assemblee di Confcommercio e Confesercenti si è impegnata ad "attivare un tavolo di confronto con le banche e con gli operatori per ridurre i costi legati alla disponibilità e all'utilizzo dei Pos". Ma "non possiamo aspettare ancora - ha poi precisato - il costo legato al massiccio utilizzo del contante è eccessivo". Al momento i tavoli promessi non sono stati ancora convocati, ma per calmare la protesta di professionisti e lavoratori autonomi, ecco che il decreto entra in vigore senza sanzioni.
Imbarazzo. Rimandare l'obbligo di Pos alla firma di tali accordi avrebbe infatti creato qualche imbarazzo al governo, perché il provvedimento in questione arriva da lontano. Era inserito nel decreto crescita varato nel 2012 dall'allora esecutivo Monti con decorrenza prevista al primo gennaio di quest'anno, ma la partenza è stata poi rinviata di altri sei mesi. Nel frattempo il testo del decreto è stato oggetto di vibrate proteste da parte delle categorie interessae e di un ricorso al Tar del Lazio - respinto - da parte dell'Ordine degli architetti.
Resta da capire cosa succederà nel caso in cui il commerciante, il professionista o l'artigiano in questione non si siano dotati di Pos. Al cliente infatti è riconosciuto il diritto di pagare via card, ma se non sarà messo nelle condizioni di poterlo fare non potrà certo ottenere il bene o il servizio gratis. La circolare dedicata dal Consiglio nazionale forense agli iscritti all'Ordine degli avvocati parla chiaro: "Qualora il cliente dovesse effettivamente richiedere di effettuare il pagamento tramite carta di debito e l'avvocato ne fosse sprovvisto - sta scritto - si determinerebbe semplicemente la fattispecie della mora del creditore che, come è noto, non libera il debitore dall'obbligazione. Nessuna sanzione è infatti prevista in caso di rifiuto di accettare il pagamento tramite carta di credito". Quindi, prima o dopo il cliente paga, con o senza Pos.
L'utilizzo del Pos in cifre
I commercianti: "Una batosta da 5 miliardi"
ROMA - "Ben vengano i Pos, ma non se si pensi di scaricarne tutti i costi su di noi". Mauro Bussoni, segretario generale Confesercenti, assicura che i commercianti non hanno niente in contrario riguardo alla diffusione della moneta elettronica, ma premette che il decreto, applicato alle attuali condizioni, per le imprese si trasformerebbe "in una batosta da 5 miliardi l'anno".
Davvero il Pos piace ai commercianti?
"Certo, la sicurezza che garantisce è un bel vantaggio anche per noi, quello che non va è il costo che siamo chiamati a pagare per installarlo in negozio. Abbiamo fatto i conti: un imprenditore che realizza transizioni per 50mila euro l'anno fra canoni, commissioni, costi di installazione e utilizzo della postazione Pos pagherà alla fine dell'anno 1.700 euro. Nel complesso il mondo delle imprese verserà per questo servizio 5 miliardi. Per i piccoli esercizi è un balzello insopportabile, i pesi vanno redistribuiti".
Come?
"Tenendo conto che le piccole imprese sono particolarmente penalizzate. Le attività a basso margine di redditività vedono il proprio utile cancellato dalle commissioni bancarie: penso soprattutto ai gestori di carburanti, tabaccai, edicolanti e bar".
Perché le associazioni non s'impegnano a firmare convenzioni con le banche per garantire i piccoli? E perché non privilegiare, per esempio, chi concede il comodato d'uso gratis?
"E' difficile ottenere condizioni estensibili ad attività così diverse fra di loro. Quanto ai comodati d'uso il mondo bancario, in realtà, è compatto: se ti fanno sconti sull'installazione poi ti fanno pagare di più il servizio, o viceversa".
Confersecenti cosa propone?
"Di abbandonare l'approccio coercitivo utilizzato fino ad ora e percorrere la strada degli incentivi fiscali da riservrare a imprese e consumatori che usino le carte di debito e di credito. Per ampliare l'utilizzo della moneta elettronica basterebbe prevedere un punto di Iva in meno per il consumatore che paga via card e dare all'esercente la possibilità di ottenere sgravi in credito d'imposta. In altri paesi, penso alla Corea del Sud e all'Argentina, hanno fatto così e ha funzionato".
Ora l'accettazione di un pagamento via card diventa obbligatorio, ma in realtà non è prevista sanzione per chi non si adegua. Facile pensare alle defezioni, voi cosa consigliate ai vostri iscritti?
"Di dotarsi comunque di Pos, perché l'andamento dei consumi è già abbastanza drammatico e rifiutarsi di garantire al cliente un servizio richiesto non è mai una buona strategia".
I consumatori: "Vanno installati gratis"
ROMA - "E' un mezzo passo avanti, ma certo non sarà questo decreto a far sì che in Italia finalmente decolli la moneta elettronica". Per Antonio Longo, presidente del Movimento difesa del cittadino e della Iepc (Italian e-payment coalition) gli effetti pratici dell'obbligo di Pos saranno limitati. "Le cose cambieranno davvero - dice - solo quando coinvolgeremo le banche".
Presidente, ma per favorire la tracciabilità dei pagamenti, non basterebbe prevedere una sanzione per chi non aderisce all'obbligo di Pos?
"Non è detto che ciò possa bastare, sarebbe meglio intervenire sui costi. In Italia sono eccessivi, fra i più alti d'Europa: non sostenibili da una piccola impresa che per affittare un Pos deve sborsare commissione da 40-60 euro medi al mese, con punte che possono arrivare ai 100".
Colpa delle banche dunque?
"Sicuramente sarebbe buona cosa se i Pos venissero installati gratis o con canoni e commissioni contenuti. Banche e istituti d'emissione hanno le loro responsabilità, ma vero guaio è che da noi domina ancora la cultura del contante. Un atteggiamento non più difendibile visto che, come certifica la Banca d'Italia, solo per produrre e far circolare moneta paghiamo 8 miliardi l'anno, senza mettere in conto i costi della sicurezza".
La Commissione europea ha appena approvato una direttiva che disciplina il sistema dei pagamenti elettronici e mette un tetto alle commissioni interbancarie. Non le pare una buona cosa?
"No, purtroppo. L'intento della Commissione è positivo, ma i risultati potrebbero non esserlo. Le banche, che incasserebbero di meno dalle commissioni, potrebbero rifarsi sui cittadini aumentando i costi a loro carico su carte di credito e bancomat. L'esperienza ci dice che il rischio è notevole: in Spagna, dopo un accordo fra le associazioni dei consumatori e le banche è andata a finire proprio cosi. Gli accordi favoriscono la grande distribuzione, ma i piccoli commercianti che hanno un numero di transizioni limitato non riescono ad ammortizzare i costi della installazione".
Se le sanzioni e il tagli non bastano, cosa si può fare per diffondere anche da noi il pagamento elettronico?
"Bisogna lavorare per un cambio di mentalità e fare in modo che tutti i soggetti interessati, consumatori, banche, società emittenti s'impegnino nell'operazione che - ricordiamolo - permetterebbe di far emergere la ricchezza sommersa. Se i commercianti faranno una battaglia per ottenere i Pos in comodato d'uso gratuito noi saremo al loro fianco".
L'ultima frontiera è il Pos sullo smartphone
Adesso un esercente può dotarsi anche di un Pos alternativo sfruttando il proprio smartphone collegato a uno speciale lettore di carte. È una tecnologia su cui si stanno moltiplicando le offerte di operatori mobili, banche e aziende specializzate, proprio per far fronte ai nuovi obblighi di legge.
Tra le ultime novità, Telecom Italia comincia in questi giorni a offrire il prodotto della tedesca Payleven, con un’offerta a pacchetto che include anche internet e telefonate. Mossa simile, sempre con Payleven, l’aveva già fatta Poste Mobile. In campo ci sono anche i prodotti di Setefi (banca Intesa San Paolo) e di aziende specializzate come le italiane Jusp e Wallet-Abile, che sono sbarcati a maggio nel nostro Paese. Tedesco è anche Sumup, che completa l’arena di concorrenti, già affollata.
L’aspetto in comune è che sono piccoli scatolotti da collegare allo smartphone o tablet (Android o iOs): via Bluetooth (Setefi, Wallet-Abile, Payleven) o dalla presa audio (Jusp, Sumup). Il cliente inserisce nello scatolotto (come in un normale Pos) la propria carta o il bancomat e inserisce il pin; l’esercente invece digita l’importo sull’app dello smartphone o direttamente sul tastierino del prodotto. Così avviene il pagamento.
Vediamo questi prodotti nel dettaglio.
Payleven
Il prodotto si collega via Bluetooth allo smartphone/tablet (Android/iOs) e supporta le carte Mastercard, Visa, Maestro, Vpay. Non ancora quindi i circuiti Pagobancomat. Viene distribuito, oltre che tramite il sito Payleven, da Poste Italiane, dai negozi Apple, Media Markt (negozi Media World), Ingram Micro e- adesso- anche da Telecom Italia.
Costa 79 euro una tantum, più 2,75 per cento di commissione (se lo prendiamo con Poste Italiane i prezzi sono inferiori ma possiamo usarlo solo con un conto Bancoposta). Non c’è un canone, quindi. Per i clienti Telecom Italia con offerta Impresa Semplice e pacchetto dati 1 GB Mobile Pos non ci sono costi una tantum per avere il prodotto.
Setefi Banca Intesa San Paolo
Il mobile Pos Move and Pay di Setefi (Banca Intesa San Paolo) è uno dei principali attori in questo settore. Viene distribuito anche da Vodafone. Supporta Pagobancomat, Visa, Mastercard, Maestro, Diners, Jcb, American Express e Moneta. I costi di Move and Pay non sono fissi, a differenza degli altri prodotti analoghi, ed è il solo con un canone mensile (2 euro se preso dalla Banca, 12 euro se da Vodafone che però vi include anche un tablet e 2 GB di internet mobile). Più un costo di commissione che varia a seconda della categoria merceologica dell’esercente. Sul sito web di Setefi non sono riportati i costi di commissione esatti (si legge che sono variabili), ma Intesa San Paolo riferisce che sono "inferiori all’1,95 per cento sulle carte e a 0,70 per cento sui bancomat".
Jusp
Questo prodotto è stato uno dei primi ad annunciarsi, ma è arrivato solo a maggio nel nostro Paese. Ha costi di attivazione molto bassi: 39 euro una tantum per il prodotto. Poi c'è un 2,50 per cento su ogni commissione e supporta Maestro, Visa, Mastercard, Vpay, Amex, Diners, Pagobancomat. Jusp ha anche tariffe con canone mensile "flat" senza costi di commissione.
Wallet-Abile
E’ arrivato a maggio questo prodotto italiano e si presenta come uno dei più completi, poiché si collega anche servizi che consentono agli esercenti di gestire la fatturazione e il magazzino prodotti. Costa 69 euro, più 25 cent per transazione, più 2,75 per cento di commissione su carte di credito e 1 per cento su Pagobancomat. Inoltre è ad oggi il solo prodotto che supporta anche Windows Phone, oltre che Android e iOs.
Sum up
È il solo prodotto a non avere un tastierino: l’utente digita l’importo e il pin della carta su una relativa app smartphone. È semplice e ha quindi costi contenuti: 19,95 euro una tantum per il prodotto, più 1,95 per cento a transazione. Dal sito però risulta che supporta solo Mastercard, quindi per questo aspetto è piuttosto limitato.
Renzi smascherato! La truffa degli 80 euro!
Abbiamo scovato un documento ufficiale del MEF, il Ministero dell’Economia e Finanze, che smaschera la truffa di Renzi riguardo ai famosi 80 euro: è un gioco delle tre carte. Oggi te li do, domani spariscono. Come? Con un artifizio tecnico che lascerà tutti a bocca aperta. Pubblichiamo, in esclusiva, il documento.
Il documento è datato 22 maggio, quindi tre giorni prima delle elezioni. E, probabilmente, non è un caso che sia stato secretato fino a quel momento e che abbia visto la luce “fuori tempo massimo”, quando i giochi elettorali erano ormai chiusi e l’effetto “80 euro” era andato a buon fine, come ha dimostrato poi la schiacciante vittoria del Partito Democratico del pifferaio Renzi.
Checché ne dicano analisti e parolai, alla ricerca di chissà quali motivazioni psico-sociali dietro il 40-20 delle Europee 2014, la spinta eccezionalmente decisiva al trionfo renziano l’hanno data gli 80 euro. Diciamocela tutta: siamo un Paese che dai tempi di Achille Lauro ad oggi non è cambiato in niente, almeno da questo punto di vista. Il voto di scambio c’è sempre stato e sempre ci sarà e, se siamo stati capaci di venderci per un paio di scarpe, figurarsi per 80 euro in busta paga. O almeno: per la promessa di 80 euro in busta paga.
Perché di questo si tratta: di una promessa. Di un gioco delle tre carte che presto si rivelerà tale. E intanto Renzi è ben saldo al suo posto e ci resterà, bontà sua, fino al 2018. Almeno stando alle sue dichiarazioni post-elettorali.
Il sospetto che si trattasse di una truffa in piena regola lo abbiamo sempre avuto. Ma trovarci davanti a questo documento ci ha lasciato, francamente, senza parole. Ricordate la falsa promessa di restituzione dell’Imu di Berlusconi? A confronto quella è roba per dilettanti.
Veniamo ai contenuti del documento, firmato da Roberta Lotti, dirigente dell’Ufficio V della Direzione dei Sistemi Informativi e dell’Innovazione del MEF.
L’Ufficio V ha competenza in materia di “retribuzioni per il personale delle amministrazioni dello Stato”: parliamo quindi di quella schiera di dipendenti pubblici, che compongono una grossa fetta degli aventi diritto alla detrazioni Irpef, quindi i famosi 80 euro, a scalare in base alle fasce di reddito.
Ricordiamo che il bonus promesso da Renzi dovrebbe essere di 80 euro per i redditi dipendenti compresi fra gli 8.000 e i 24.000 €, mentre andrà a scendere fino a scomparire per la fascia di reddito compreso fra 24.001 e 26.000 €.
L’oggetto del documento, che pubblichiamo in esclusiva e che smaschera la truffa di Renzi, riguarda “le indicazioni operative in merito all’art.1, D.L. 66 del 24 aprile 2014 in materia di riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti”: ovvero, tratta proprio dei famosi 80 euro.
Fin qui nulla di strano. Se non fosse che, a partire da qualche riga più giù, sale fortissima la puzza di bruciato.
Perché, così si legge nel documento, “codesti uffici” mettono on-line “la funzione self service a disposizione degli amministrati per comunicare la rinuncia all’attribuzione del beneficio”.
Domanda: perché mai qualcuno dovrebbe rinunciare agli 80 euro in busta paga? Chi sarebbe così sciocco?
A meno che… a meno che non risulti più semplice rinunciare piuttosto che aspettare invano la manna dal cielo.
E scorrendo il documento si capisce dove sta l’inghippo.
L’artifizio tecnico che viene utilizzato è racchiuso tutto nella differenza tra “reddito previsionale” e “reddito reale”. Perché, questo si legge nel documento, la detrazione Irpef (il bonus da 80 euro) verrà calcolata sulla base del “reddito previsionale” e non su quella del “reddito reale”.
Conclusione: a fine anno saranno migliaia quelli chiamati a restituire i soldi sulla base dell’imponibile reale. Ecco il perché il Mef avverte fin da ora che chi vuole può rinunciare, tramite l’apposito modulo self-service, all’attribuzione del credito.
Come denunciato da Marcello Pacifico dell’Anief-Confedir – l’associazione nazionale sindacale per il personale docente e Ata, precario e di ruolo – “alla fine della fiera appena il 40% degli insegnanti percepirà l’aumento. Su 735mila prof in servizio solo 300mila. E per tanti sarà anche inferiore a quanto strombazzato dall’Esecutivo.”
Non solo: “Se l’aumento corrisposto con le buste paga del mese di maggio è solo ipotetico– accusa Pacifico – perche il credito è stato determinato sul reddito presunto e non effettivo”, questo significa che “a fine anno, in fase di conguaglio, sarà poi determinata l’effettiva spettanza in base al reddito complessivo reale e ai giorni lavorati. Per migliaia di insegnanti che percepiscono redditi al limite della soglia prevista dal beneficio fiscale, si sta quindi profilando la concreta possibilità che i benefici acquisiti in busta paga nei prossimi otto mesi vengono poi restituiti a fine 2014.”
Ovvio: basta calcolare il bonus su un reddito presunto, e non su base reale, per mandare “fuori soglia” migliaia di persone ed evitare di assegnare loro gli 80 euro.
Persino Totò, che era riuscito a vendere la Fontana di Trevi ad un turista americano, sarebbe impallidito di fronte al mago (della truffa) Renzi.
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India, 2 bambine violentate ed impiccate, la ‘cultura dello stupro’
E’ qui, in un Paese di oltre un miliardo di abitanti, all’avanguardia nella ricerca sul nucleare e nei programmi spaziali, un Paese che ha eletto una donna come primo ministro nel 1966, che due ragazzine sono state – di nuovo, ancora –brutalmente stuprate e poi appese ai rami di un albero e lasciate morire.
Scomparse da casa nella serata di mercoledì, le due dalit, cioè senza casta, di 14 e 15 anni, sono state violentate da una banda di uomini nel villaggio di Katra, nell’Uttar Pradesh, India nord-orientale, per poi essere impiccate ai rami di un mango. Al momento, secondo i media indiani, sarebbero state denunciate 7 persone, tra cui due agenti di polizia, ma soltanto uno di loro è stato arrestato, mentre gli altri sono latitanti.
In un primo momento, non riuscendo a trovare le due adolescenti e vista la reticenza manifestata dalle forze dell’ordine nel registrare la denuncia della scomparsa (il capo della polizia locale è stato poi sospeso dal servizio per non aver agito tempestivamente), gli abitanti del villaggio hanno avviato una ricerca a tappeto nei campi dove le cugine erano andate perché nella loro abitazione non ci sono i servizi igienici.
Qui la scoperta dei cadaveri, a cui è seguita una rapida indagine che ha permesso di ricostruire la storia, confermando il rapimento e lo stupro collettivo. L’ennesimo. Solo lo scorso febbraio un’altra bimba di 9 anni era stata aggredita nel cortile di casa sua, mentre un mese prima una 12enne era stata violentata e bruciata viva; lo scorso anno invece, vittime della brutalità del branco erano state dieci minorenni sordomute e una bambina di 5 anni, stuprata e mutilata da un suo vicino di casa; e così via, fino ad arrivare al dicembre del 2012, quando una studentessa di 23 anni venne abusata da sei uomini mentre tornava a casa su un autobus. Morì 10 giorni dopo per i traumi riportati.
A nulla sembrano dunque valere le leggi più rigide contro lo stupro varate lo scorso anno sull’onda delle proteste che dilagarono in tutta l’India: la violenza contro le donne nel Paese è una questione culturale, che l’atteggiamento passivo delle autorità non contribuisce di certo a ostacolare. Ed è una questione a cui l’occidente sembra guardare con occhio quasi indifferente.
L’India è il ‘Paese in via di sviluppo’, l’economia ‘emergente’, un nuovo interlocutore; l’India è misticismo, santoni, guru, pace dei sensi, turismo. Quello che accade alle sue figlie,massacrate e sepolte da stereotipi e convenzioni, quello invece può essere lasciato lì, a penzolare dai rami di un albero, lontano dagli occhi e dalle voce.
Non posterò le foto della barbarie consumata, della follia voyeristica, dello scempio umano globalizzato, della tolleranza civilizzata. Per rispetto certo, ma anche per il dolore e la vergogna che provo in questo momento. Nel cuore una preghiera per queste povere creature ed una domanda: Siamo abbastanza "uomini" per fermare la violenza contro le donne?
Ecco perchè la Germania è diventata la locomotiva d'Europa
Dopo questi dieci anni di sacrifici, l’economia tedesca ha iniziato ad andare bene e non si può dire che sia stata aiutata dalla Bce. La politica monetaria di Jean-Claude Trichet prima e di Mario Draghi non ha favorito la Germania più di altri. Ha garantito liquidità abbondante ma inflazione bassa, ha alzato i tassi quando altrimenti l’inflazione saliva troppo. Il fatto che la Bce stia a Francoforte non significa che i sacrifici dei tedeschi siano stati favoriti dalla stabilità monetaria garantita dalla banca centrale. Quel che ha favorito la Germania è il suo modello. Quando ci sono problemi, il paese non si spacca tra governo, confindustria e sindacati. I tedeschi hanno sindacati presenti nella holding delle aziende, là dove si elaborano le strategie, e questo permette loro di coinvolgere i lavoratori in discorsi strategici e non solo congiunturali, come accade in Italia. Se anche in Italia avessimo il coraggio di fare un discorso strategico da qui al 2020, anche la Cgil di Susanna Camusso sarebbe costretta a dare un contributo non conflittuale, ma cooperativo.
Insomma dovremmo avere una visione a lungo termine, non miope.
Avere la veduta lunga significa ragionare sulle conseguenze che avrai fra vent’anni, rispetto alle decisioni odierne. La stessa miopia italiana l’ha avuta la Spagna il cui premier José Zapatero si è molto sfogato sull’ambito sociale e familiare ma ha fatto poco dal punto di vista economico. Gli spagnoli con Zapatero hanno perso sette anni. I tedeschi, al contrario, hanno messo molto fieno in cascina.
Ma in questo quadro programmatico l'euroscetticismo forzato o addirittura l'uscita dalla moneta unica sono quadri destabilizzanti davvero pericolosi.
In questi dieci anni di moneta unica abbiamo avuto tre strategie. Quella della cicala, che è stata adottata da Italia, Grecia, Spagna, Portogallo: hanno preso i bassi tassi tedeschi e se li sono mangiati. Per dieci anni i politici di queste nazioni hanno distrutto il welfare costruito in anni di lotte e, con la complicità delle agenzie di rating che dormivano, abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Anziché finanziarci la produttività, li abbiamo dissipati in consumi privati e pubblici, svendendo letteralmente il futuro nostro e dei nostri figli.
La seconda strategia è stata quella francese che ha fatto quello che Napoleone sognava di fare con gli eserciti e che i francesi in questi due lustri hanno fatto con la moneta. Si sono comprati tutto quello che l’Italia aveva da vendere: energia, reti commerciali, banche.
La Germania ha messo in atto la terza strategia che somiglia a quella francese ma si differenzia per un particolare importante. I tedeschi non hanno comprato in Italia, ma hanno usato delle nostre produzioni di qualità per sostenere le loro industrie. Molte imprese del nostro nord est lavorano per la filiera tedesca e da essa vengono trainate. Mentre, quando le nostre industrie vanno male, si portano dietro la Francia.
Inoltre in Germania il mondo dell’imprenditoria ha una grandissima influenza su quello politico e, normalmente, non agisce in aperto contrasto con i sindacati dei lavoratori. Quest’ultimi d’altra parte non hanno il potere condizionante che c’è in Italia
In Germania vi sono alcuni dei più rilevanti colossi mondiali dell’industria meccanica, chimica, alimentare, farmaceutica e della grande distribuzione, che a loro volta sono strettamente interconnessi con il sistema bancario tedesco che li supporta alla grande nei loro investimenti sia nazionali che, soprattutto, esteri.
In Germania ben difficilmente si legifera senza avere sempre bene a mente che il proprio sistema industriale-manifatturiero è un immenso patrimonio nazionale che va salvaguardato e soprattutto tutelato e supportato a tutti i costi, per il bene di tutti.
In Germania pure le norme che sembrerebbero penalizzare l’industria, quali quelle contro l’inquinamento e la sicurezza, alla fine vengono gestite in senso positivo. Nella fase iniziale di applicazione ci sono ampi contributi economici che riducono l’impatto sui costi delle imprese. Poi ci pensano gli emissari del governo a Bruxelles a estenderli agli altri paesi che dovranno anch’essi applicarli, magari con la fornitura di prodotti e servizi Made in Germany.
La formazione dell’opinione pubblica tedesca avviene, come dappertutto, attraverso i vari tipi di media che, normalmente, sono di alta qualità e serietà, specie quella che fa informazione politico economica. Anche nei dibattiti dove sono presenti i politici si parla in modo serio, responsabile e concreto. Chi vi interviene deve dimostrare la competenza necessaria e quasi mai la discussione degenera nello scambio di accuse reciproche al solo fine di denigrare l’avversario.
Dell’opinione pubblica dei tedeschi, che possiamo dire mediamente ben informati, è necessario tenerne sempre gran conto. Il tedesco non è lusingabile con promesse improbabili, demagogiche ma non per questo è docile e arrendevole. Insomma al tedesco puoi far digerire anche bocconi amari ma nel contempo bisogna fargli ben capire il perché.
In Germania tutti sono ben consapevoli e convinti che la pubblica amministrazione è al servizio dei cittadini e delle imprese. Ben difficilmente nella pubblica amministrazione di questo paese avvengono atti di malcostume, di soprusi o vessazioni nei confronti dei cittadini. Se un pubblico dipendente fa lo scansafatiche, o compie malversazioni o ancora peggio, è additato al pubblico ludibrio per cui ben difficilmente questo accade. Il pubblico dipendente tedesco è inteso come un servitore dello stato, leale per definizione, che deve agevolare la vita al cittadino e alle imprese.
Se è vero che ogni paese ha i politici che si merita, ne deriva che quelli tedeschi devono degnamente rappresentare un popolo complessivamente molto virtuoso. E così è infatti.
In Germania i governanti, se vogliono restare in sella, devono comportarsi da tedeschi e dimostrarsi agguerriti paladini degli interessi della Germania. Devono confermare continuamente la loro competenza, pena la loro morte politica. Trascurando le frange estremiste con poco avvenire, la gestione politica della Germania è in mano a personalità competenti che in ogni ambito devono dimostrare di essere all’altezza del compito, specie se questo viene svolto in contesti internazionali dove più che altrove si portano avanti gli interessi della propria nazione.
Il dibattito politico in Germania è comunque tutt’altro che sobrio. Anzi spesso è molto infuocato sugli argomenti che toccano gli interessi della gente e lì, come dappertutto, ci si accapiglia per proporre varie metodologie di divisione della torta, senza dimenticare però che la torta bisogna anche che qualcuno sia messo nelle condizioni di produrla.
La Germania, a suo tempo, grazie alla competenza dei suoi governanti è sostanzialmente riuscita a imporre tutte le sue regole nel governo generale dell’Unione Europea. In questo modo ha creato le premesse per la progressiva assunzione del ruolo di stato egemone all’interno della UE.
Grazie alle riforme interne implementate per tempo, che hanno contenuto al minimo l’aumento del costo dei salari tedeschi e al fatto di essere stato il primo paese europeo a de localizzare nei paesi low-cost, Cina in primis,la Germania è oggi il paese con un attivo commerciale stratosferico. Delocalizzando le sue produzioni di prodotti di massa o a basso contenuto tecnologico la Germania, attraverso l’importazione, è diventato il maggior concorrente nella Unione Europea delle aziende degli altri paesi europei anche in questi settori. Tutto ciò, unito alla capacità tutta teutonica di sviluppare con metodo ogni tipologia di business, ha fatto di questo paese un competitor formidabile, oggi senza rivali in Europa e che nel mondo riesce a conseguire ottime performance non ottenibili però se la Germania fosse fuori dall’EURO o questi non ci fosse mai stato.
A questo punto tocca anche dire il successo economico mondiale della Germania è per la maggior parte attribuibile proprio l’appartenenza all’EURO.
Il tasso di cambio dell’EURO nel mercato FOREX è oggi una sorta di interpolazione fra i valori che potrebbero avere le singole valute nazionali dei paesi della UE, qualora non ci fosse mai stata una moneta unica, oppure si ritornasse a valute nazionali disgregando l’EURO. Tanto per buttare qualche numero molto verosimile, nel caso di disgregazione dell’EURO, un eventuale nuovo Marco potrebbe valere 1,15-1,20 EUR, una nuova Lira 0,80-0,85 EUR.
In queste condizioni l’economia reale tedesca cadrebbe in una profonda crisi, tutta la competitività tedesca attuale sarebbe in molti settori compromessa, Insomma una catastrofe. Non per nulla l’imprenditoria tedesca fa un tifo matto perché la Germania resti nella moneta unica, essendone il grande beneficiario. Basta guardare gli utili delle corporate tedesche per comprenderne la misura
Ciò però provoca un continuo trasferimento di produzioni industriali dai paesi periferici verso la Germania per effetto del sistema dei cambi fissi all’interno della UE che consente al sistema più efficiente di acquisire sempre maggiori quote di mercato.
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