C’è un tanfo da svenire, nelle case «belle e salubri» per i terremotati dell’Aquila. L’impiegato comunale spalanca la porta e vien fuori una folata fetida come il fiato rancido di una bestia immonda. Siamo a Cansatessa, a due passi da Coppito. Dove l’Italia, cinque anni fa, pianse ai funerali dei morti del terremoto e dove accolse i Grandi del G8 chiamati a testimoniare la «miracolosa rinascita che tutto il mondo ammira». È vuoto e spettrale, il «villaggio modello» di Cansatessa-San Vittorino. Avevano cominciato a consegnarlo agli aquilani rimasti senza tetto nel gennaio 2010. C’erano Guido Bertolaso, Franco Gabrielli, il sindaco Massimo Cialente, la presidente della Provincia Stefania Pezzopane e gli alti papaveri della «Task Force Infrastrutture» delle Forze Armate che si era fatta carico del progetto. Brindisi e urrà.
Certo, carucce: 1.300 euro al metro quadro per case di legno, ferro e cartongesso. Quattrocento euro in più di quanto, tolto questo e tolto quello, viene dato oggi a chi ristruttura le vecchie e bellissime case di pietra. Ma che figurone! Pochi mesi per costruirle ed eccole là, pronte: con la bottiglia di spumante in frigo.
Pochi mesi e già puzzavano di muffa. Pessimo il legno. Pessime le giunture. Pessimi i vespai contro l’umidità. Asma. Bronchiti. Artriti. Finché è intervenuta la magistratura arrestando il principale protagonista del «miracolo», mettendo tutto sotto sequestro e ordinando l’evacuazione totale. Centotré famiglie vivevano lì, a Cansatessa. Quando le spostarono avevano il magone: «Siamo sfollati due volte». In via Fulvio Bernardini, via Nereo Rocco, via Vittorio Pozzo, tutti allenatori di calcio, non è rimasto nessuno. «Giardini» spelacchiati. Lampioni storti. Pavimenti semidistrutti. Piastrelle divelte. Case cannibalizzate. Docce rubate. Lavandini rubati. Bidè rubati. Mobili e materassi lasciati lì: facevano schifo anche agli sciacalli.
L’abbiamo scritto e lo riscriviamo: sarebbe ingiusto liquidare l’enorme sforzo di migliaia di uomini e donne, nei mesi febbrili seguiti alla tremenda botta del 6 aprile 2009, soltanto come un’occasione di affari. E sarebbe ingiusto ricordare di Silvio Berlusconi solo le sdrammatizzazioni nelle tendopoli («Bisogna prenderla come un camping da fine settimana»), le battute alle dottoresse («Mi piacerebbe farmi rianimare da lei!») o la promessa di case con le «lenzuola cifrate e una torta gelato con lo spumante in frigo». Furono migliaia e migliaia gli aquilani che all’arrivo del gelido inverno ai piedi della Maiella, nell’autunno del 2009, ringraziarono Iddio e il Cavaliere per quel tetto sopra la testa.
Non si può liquidare tutto come un business scellerato. Come se si fossero occupati dell’emergenza, degli sfollati e della ricostruzione solo faccendieri come Francesco De Vito Piscicelli, quello che la mattina del 6 aprile gongolava: «Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto...». Non è stato solo quello, l’intervento dello Stato a L’Aquila. E forse è davvero troppo spiccio il dossier di Søren Søndergaard, il deputato europeo della Sinistra membro della Cont, la commissione di controllo del bilancio di Bruxelles, che ha rovesciato sugli interventi d’emergenza e la ricostruzione accuse pesantissime parlando, a proposito delle case provvisorie, di «materiale scadente... impianti elettrici difettosi... intonaco infiammabile...» e di pesanti infiltrazioni delle mafie al punto che parte dei fondi per i progetti Case e Map (Moduli abitativi provvisori) sarebbero finiti a società «con legami diretti o indiretti con la criminalità organizzata».
Ma certo, in questi anni, è venuto a galla di tutto. Prima i conti pazzeschi di certe spese del G8: 4.408.993 euro per gli «arredi» delle foresterie dei Grandi alla caserma Coppito, 24.420 euro per gli accappatoi, 433 euro per ciascuna delle «60 penne in edizione unica» per un totale di 26.000, 500 euro per ognuna delle 45 ciotoline portacenere di Bulgari, 92.000 per la consulenza artistica di Mario Catalano, chiamato a dare un tocco di classe al G8 dopo essere stato lo scenografo (tette, culi e battute grasse) di «Colpo grosso». Poi le accuse di Libera e di Don Ciotti, tra le quali quella incredibile sull’acquisto di un numero così spropositato di gabinetti chimici, per un totale di 34 milioni di euro, che ogni sfollato nelle tendopoli avrebbe potuto produrre «fino a un quintale al giorno di pipì e di popò». E poi ancora il diluvio di leggi e leggine, regole e regolette che hanno ingabbiato L’Aquila peggio ancora dei grovigli (152 milioni di euro) di impalcature. Riassunto: nei primi quattro anni dopo il sisma 5 leggi speciali, 21 Direttive del Commissario Vicario, 25 Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza, 51 Atti della Struttura Tecnica di Missione, 62 dispositivi della Protezione Civile, 73 Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei ministri, 152 Decreti del Commissario Delegato, 720 ordinanze del Comune. «Ma devo confessare poi mi sono anche stufato di tenere i conti», spiega l’ingegnere Gianfranco Ruggeri.
Per non dire dei conti delle sistemazioni provvisorie: 792 milioni iniziali per le C.a.s.e. (Complessi antisismici ecocompatibili), 231 per i Map, 84 per i Musp (Moduli a uso scolastico provvisorio) e 736 mila euro per i Mep, i Moduli ecclesiastici provvisori. Troppi: fatti i conti, ammesso che abbiano accolto 18 mila persone, quelle case temporanee sarebbero costate oltre mille euro al mese per ogni ospite. Una enormità. «Credo che difficilmente queste case nuove verranno lasciate perché sono molto belle e saranno immerse nel verde», ammiccò il Cavaliere davanti ad alcune di queste abitazioni. Certo si sperava fossero un po’ meno «provvisorie». Che avessero meno magagne. Quanto all’«ecosostenibilità», un dossier di Legambiente accusa: il 43% è al di sotto di ogni soglia. Dice tutto la polemica sulle bollette arretrate che il Comune, dopo quattro anni, ha chiesto di pagare agli sfollati. «Per 60 metri quadri mi sono ritrovata una bolletta del gas di 875 euro l’anno», spiega Giusi Pitari, la docente animatrice del Popolo delle carriole, «Alla signora di sotto è andata peggio: per gli stessi 60 metri, deve pagarne 1.250 l’anno. Alla faccia del risparmio energetico!»
E intanto, mentre troppe case temporanee diventano velocemente inabitabili, quelle vecchie abbattute o devastate dal sisma sono ancora in larga parte lì, in macerie. Certo, dopo cinque anni di silenzio irreale, finalmente il centro dell’Aquila è un frastuono di martelli pneumatici, rombar di camion, urla di muratori in tutte le lingue. «Il problema non sono i soldi. Ce ne sono tanti ma tanti che potremmo lavorare tutti», dice l’architetto Sestilio Frezzini che sta sistemando uno dei più bei palazzi del centro. I problemi, quelli veri, sono i lacci e lacciuoli burocratici. Anche se il Comune, dopo lo scandalo delle intercettazioni dell’ex assessore comunale Ermanno Lisi («Abbiamo avuto il culo del terremoto e con tutte ‘ste opere che ci stanno farsele scappà mo’ è da fessi...») pare avere infine accelerato. Spiega Massimo Cialente, il «sindaco antisismico» capace di resistere a tutte le scosse telluriche, partitiche e giudiziarie che da anni lo circondano, che i cantieri aperti sono 150. Il ministero dei Beni culturali abbassa: 101. Accusa Ruggeri: «Comunque troppo pochi su 190 ettari di abitazioni e 1.532 cantieri da aprire solo a L’Aquila». Dire che tutto sia fermo come due anni fa, tre anni fa, quattro anni fa sarebbe ingiusto. Ma gran parte degli edifici sono ancora lì. Com’erano. Con gli armadi rimasti spalancati su ciò che resta del pavimento.
Alla prefettura, finita su tutti i giornali del mondo per la foto di Barack Obama, hanno rifatto la facciata in legno e raddrizzato la scritta «Palazzo del governo». Dentro, però, è un disastro. Perfino i cavi di acciaio tesi per tenere i muri, sono pericolosamente afflosciati e le pareti minacciano di staccare. La Casa dello studente, uno dei simboli della tragedia, è ancora lì. Con le stanze spalancate nel vuoto. Sulla rete di recinzione si accavallano le foto dei ragazzi morti, qualche regalino, biglietti di affetto: «Luminoso sognavi il tuo avvenire. / Un giorno diventare medico. / Curare con amore grande / i malati nel corpo e nello spirito. / Al di là del tempo, tra gli angeli / alla Vergine Addolorata / porti il dolore dei tuoi cari...».
Morirono in quaranta, a Onna. Su trecento abitanti. Le macerie di via dei Martiri, la strada principale del paese dedicata alle vittime di una rappresaglia nazista e devastata dal terremoto, furono uno dei simboli della catastrofe. Cinque anni dopo, c’è all’ingresso una struttura modernissima, la «CasaOnna» progettata dall’architetto sudtirolese Wittfrida «Witti» Mitterer. Subito dopo, al posto del vecchio asilo, la Casa della cultura. Ma gli edifici che si affacciavano sulla strada sono rimasti com’erano. Macerie. Mute. Non senti lo schiocco di una gru, la botta di un martello, il cigolio di una carriola... L’unico cantiere aperto, dice l’architetto Onelio De Felice, è quello per ricostruire la chiesa: «I tedeschi sì, ci sono stati vicini. Il Comune meno. Il piano di ricostruzione, per rifare il paese com’era e dov’era, è stato fatto abbastanza in fretta. Ce l’ha tenuto fermo un tempo immemorabile, all’Aquila. Forse non volevano che noi partissimo per primi...».
Eppure, sono tornate a sfrecciare le rondini, nel cielo azzurro di Onna. E tra le robinie e i meli in fiore, quelli vecchi sotto i quali quel giorno maledetto adagiarono i morti e quelli nuovi piantati tra le case prefabbricate, cantano i passeri e le cinciallegre e Matteo e gli altri bambini della nuova «materna» fanno merenda sotto disegni rossi e gialli e blu che sprizzano allegria primaverile.
Matteo è il primo dei piccoli nati dopo il terremoto. Il simbolo stesso della rinascita. L’antico paese che un tempo si chiamava Villa Unda, lui e gli altri che sono cresciuti nel villaggio costruito dalla Provincia di Trento, non l’hanno mai conosciuto. Quando qualche figlioletto, così, di colpo, chiede come fosse il paese «prima», la mamma lo porta al di là della strada, dove la staccionata è tappezzata da grandi fotografie di struggente malinconia.
Ogni foto, per gli onnesi, è un tuffo al cuore. La processione in via dei Calzolai, coi rampicanti che salivano per i muri. L’angolo Sant’Antonio con l’altarino coperto di fiori. La chiesetta di Sant’Anna. Via Oppieti, coi balconi che traboccavano di gerani. C’è anche una poesia di Giustino Parisse, il giornalista de il Centro che qui viveva e che sotto le macerie perse il padre e i due figli Domenico e Maria Paola: «Quanto era bella Onna prima dell’orrendo scossone. Sorta fra le acque e immersa nella verde valle dell’Aterno. Mille anni di storia e milioni di storie».
L'Aquila, 5 anni dopo: lo Stato che NON c'è stato
L'Aquila, cinque anni dopo. Lettera aperta di una madre a Matteo Renzi
Di Ilaria Carosi *
Quando vidi per la prima volta la cupola del Brunelleschi, rimasi senza fiato. Ci arrivai da un vicoletto stretto, spuntò all’improvviso, un solo spicchio di rosso fu sufficiente ad incantarmi.
Anche la mia città toglieva il fiato, Matteo, anzi, te lo toglierebbe anche ora che è fasciata, impolverata, blindata, rattoppata. Tra alcune pavimentazioni del centro storico sono spuntati ciuffi d’erba, perché nessuno ci passeggia più e la natura riafferma il suo predominio. In alcuni siti di palazzi crollati sono cresciuti addirittura degli alberi.
A Firenze andai con la mia famiglia, due volte, a distanza di anni. Di quella famiglia di quattro persone, mi restano solo ricordi e fotografie, perché la morte di mia sorella Claudia, il 6 aprile 2009, ci ha lasciato solo questo: fotografie e ricordi. Arrivano alla mente improvvisi: “Faccio una corsa, aspettami”, dissi a Claudia nel corridoio della Galleria degli Uffizi, quando mi accorsi che eravamo quasi arrivate all’uscita. Tornai indietro, “controcorrente”, per dare ancora uno sguardo alla Venere di Botticelli.
Insieme ai ricordi, noi aquilani, ci portiamo dentro quel dolore muto che accomuna chi con la perdita deve imparare a convivere e a fare i conti, quotidianamente. Noi aquilani, da cinque anni a questa parte, abbiamo fatto della perdita un pezzo della nostra identità: affetti, punti di riferimento, i luoghi della nostra memoria e del nostro cuore, si sono accartocciati nel giro di pochi secondi.
I ricordi delle strade in cui siamo cresciuti, dei passatempi che avevamo, dei nostri modi di dire, degli odori della nostra defunta città ci rincorrono, ci coccolano, ci angosciano. Gli amici più cari, se non sono nell’elenco dei morti, sono spesso lontani, in nuovi mal collegati quartieri, in altre città perché il lavoro non c’è, lontani perché ciascuno è preso da pene interiori che, ormai, è stufo perfino di raccontare. Ciascuno è solo, a modo suo. Lo vedo nel mio lavoro, ogni giorno.
Gli anziani, di isolamento e spersonalizzazione conseguente alla totale perdita di quanto conoscevano, ne sono morti. Per i giovanissimi è stato ancora peggio. Ci sono bambini che non hanno mai visto una vera scuola. Le famiglie con possibilità economiche offrono ai figli varie attività extrascolastiche, per tamponare il vuoto dei non-luoghi cui sono destinati tutti gli altri, quelli che vagano tra le macerie di un centro storico fantasma, le luci artificiali delle nostre troppe gallerie commerciali e la musica troppo alta dei tanti bar e pub.
Moltissimi giovani se ne sono andati, in questi anni. Andati perché partiti, andati perché morti. Giovani come me e te che, privati di una qualunque speranza di miglioramento, hanno scelto, in alcuni casi, la morte volontaria. Altri sono deceduti in incidenti stradali che, quando subisci un trauma violento come il nostro, non riesci e non puoi considerare solo frutto della sfortuna o del caso.
Le fratture non hanno riguardato solo la terra ma l’integrità degli individui. In moltissimi, di tutte le fasce d’età, ancora non riescono a dormire una notte intera senza risvegli o incubi. In moltissimi, non riescono a dormire senza l’ausilio di un farmaco. Aumentato il consumo di alcolici e psicofarmaci, l’incidenza di ansia e depressione. Aumentato il numero delle separazioni, perché di compromessi, in una vita, non riesci a sopportarne troppi contemporaneamente. Tutti dati reali, facilmente rintracciabili. Tutto prevedibile. Siamo stati lasciati soli, Matteo.
La mattina del 6 aprile, davanti al palazzo sbriciolato di mia sorella, con le gambe che non riuscivano a smettere di tremare e la gola secca per l’odore di gas e per la polvere, continuavo a pensare: “Adesso arriva lo Stato, adesso arriva lo Stato”. Non i politici, Matteo, lo Stato, quello con la S maiuscola.
Invece sono arrivati i giornalisti, la prima bottiglia d’acqua me l’hanno data loro. Poi è arrivato anche tutto il resto, gli appalti truccati, le bugie, le passeggiate di tutti sul miglior palcoscenico che il Paese potesse offrire.
Ora ti dirò che di questo non abbiamo più alcun bisogno. Sappiamo di essere “una questione nazionale”, che “un centro storico non può essere lasciato così”, che “L’Aquila non è Kabul”, pur essendo forse “la nuova Pompei”, sappiamo che “il centro storico sarà ricostruito in cinque anni” o forse no, perché “i soldi non ci sono”.
Vieni a L’Aquila Matteo, vieni da solo, senza scorta, senza giornalisti, senza riflettori, in un giorno normale. Guardati intorno, interrogati, parla con le persone. E poi, ti chiedo una sola cosa: dicci la verità, dicci tutto quello che non si può fare e ne prenderemo atto.
Ho capito che stavolta non si può correre indietro e controcorrente, come nel corridoio degli Uffizi, è arrivato il momento di andare avanti. Sai, Matteo, ora ho un figlio e a lui dovrò dare delle risposte, quando mi chiederà conto del perché non l’ho portato via da qui.
*Psicologa e psicoterapeuta aquilana.
Questo articolo è apparso per la prima volta su Vanity Fair, che ringraziamo per la gentile concessione.