Di Ilaria Carosi *
Quando vidi per la prima volta la cupola del Brunelleschi, rimasi senza fiato. Ci arrivai da un vicoletto stretto, spuntò all’improvviso, un solo spicchio di rosso fu sufficiente ad incantarmi.
Anche la mia città toglieva il fiato, Matteo, anzi, te lo toglierebbe anche ora che è fasciata, impolverata, blindata, rattoppata. Tra alcune pavimentazioni del centro storico sono spuntati ciuffi d’erba, perché nessuno ci passeggia più e la natura riafferma il suo predominio. In alcuni siti di palazzi crollati sono cresciuti addirittura degli alberi.
A Firenze andai con la mia famiglia, due volte, a distanza di anni. Di quella famiglia di quattro persone, mi restano solo ricordi e fotografie, perché la morte di mia sorella Claudia, il 6 aprile 2009, ci ha lasciato solo questo: fotografie e ricordi. Arrivano alla mente improvvisi: “Faccio una corsa, aspettami”, dissi a Claudia nel corridoio della Galleria degli Uffizi, quando mi accorsi che eravamo quasi arrivate all’uscita. Tornai indietro, “controcorrente”, per dare ancora uno sguardo alla Venere di Botticelli.
Insieme ai ricordi, noi aquilani, ci portiamo dentro quel dolore muto che accomuna chi con la perdita deve imparare a convivere e a fare i conti, quotidianamente. Noi aquilani, da cinque anni a questa parte, abbiamo fatto della perdita un pezzo della nostra identità: affetti, punti di riferimento, i luoghi della nostra memoria e del nostro cuore, si sono accartocciati nel giro di pochi secondi.
I ricordi delle strade in cui siamo cresciuti, dei passatempi che avevamo, dei nostri modi di dire, degli odori della nostra defunta città ci rincorrono, ci coccolano, ci angosciano. Gli amici più cari, se non sono nell’elenco dei morti, sono spesso lontani, in nuovi mal collegati quartieri, in altre città perché il lavoro non c’è, lontani perché ciascuno è preso da pene interiori che, ormai, è stufo perfino di raccontare. Ciascuno è solo, a modo suo. Lo vedo nel mio lavoro, ogni giorno.
Gli anziani, di isolamento e spersonalizzazione conseguente alla totale perdita di quanto conoscevano, ne sono morti. Per i giovanissimi è stato ancora peggio. Ci sono bambini che non hanno mai visto una vera scuola. Le famiglie con possibilità economiche offrono ai figli varie attività extrascolastiche, per tamponare il vuoto dei non-luoghi cui sono destinati tutti gli altri, quelli che vagano tra le macerie di un centro storico fantasma, le luci artificiali delle nostre troppe gallerie commerciali e la musica troppo alta dei tanti bar e pub.
Moltissimi giovani se ne sono andati, in questi anni. Andati perché partiti, andati perché morti. Giovani come me e te che, privati di una qualunque speranza di miglioramento, hanno scelto, in alcuni casi, la morte volontaria. Altri sono deceduti in incidenti stradali che, quando subisci un trauma violento come il nostro, non riesci e non puoi considerare solo frutto della sfortuna o del caso.
Le fratture non hanno riguardato solo la terra ma l’integrità degli individui. In moltissimi, di tutte le fasce d’età, ancora non riescono a dormire una notte intera senza risvegli o incubi. In moltissimi, non riescono a dormire senza l’ausilio di un farmaco. Aumentato il consumo di alcolici e psicofarmaci, l’incidenza di ansia e depressione. Aumentato il numero delle separazioni, perché di compromessi, in una vita, non riesci a sopportarne troppi contemporaneamente. Tutti dati reali, facilmente rintracciabili. Tutto prevedibile. Siamo stati lasciati soli, Matteo.
La mattina del 6 aprile, davanti al palazzo sbriciolato di mia sorella, con le gambe che non riuscivano a smettere di tremare e la gola secca per l’odore di gas e per la polvere, continuavo a pensare: “Adesso arriva lo Stato, adesso arriva lo Stato”. Non i politici, Matteo, lo Stato, quello con la S maiuscola.
Invece sono arrivati i giornalisti, la prima bottiglia d’acqua me l’hanno data loro. Poi è arrivato anche tutto il resto, gli appalti truccati, le bugie, le passeggiate di tutti sul miglior palcoscenico che il Paese potesse offrire.
Ora ti dirò che di questo non abbiamo più alcun bisogno. Sappiamo di essere “una questione nazionale”, che “un centro storico non può essere lasciato così”, che “L’Aquila non è Kabul”, pur essendo forse “la nuova Pompei”, sappiamo che “il centro storico sarà ricostruito in cinque anni” o forse no, perché “i soldi non ci sono”.
Vieni a L’Aquila Matteo, vieni da solo, senza scorta, senza giornalisti, senza riflettori, in un giorno normale. Guardati intorno, interrogati, parla con le persone. E poi, ti chiedo una sola cosa: dicci la verità, dicci tutto quello che non si può fare e ne prenderemo atto.
Ho capito che stavolta non si può correre indietro e controcorrente, come nel corridoio degli Uffizi, è arrivato il momento di andare avanti. Sai, Matteo, ora ho un figlio e a lui dovrò dare delle risposte, quando mi chiederà conto del perché non l’ho portato via da qui.
*Psicologa e psicoterapeuta aquilana.
Questo articolo è apparso per la prima volta su Vanity Fair, che ringraziamo per la gentile concessione.
L'Aquila, cinque anni dopo. Lettera aperta di una madre a Matteo Renzi
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