Una condanna penale definitiva l'imputato Silvio Berlusconi dice di non contemplarla neppure tra i casi della vita, ma con l'anticipo al 30 luglio dell'udienza in Cassazione del processo Mediaset la difesa sta vagliando tutti i passaggi che separano l'ex premier dalla possibile esecuzione della pena comminata in Appello per frode fiscale: 4 anni di reclusione, di cui 3 coperti da indulto, e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici.
La data del 30 luglio per il processo Mediaset sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv è stata stabilita, dice la Suprema corte, sulla base del rilievo che la prescrizione per una parte del reato contestato scatterebbe il primo agosto prossimo. Il processo si celebrerà davanti alla "sezione feriale" della Corte, il collegio dei giudici che non va in vacanza e a cui tocca celebrare la cause più urgenti perché a rischio di estinzione.
AVVOCATI POTREBBERO CHIEDERE "RINVIO BREVE"
Di prassi il processo penale in Cassazione si conclude nello stesso giorno dell'udienza con la lettura del dispositivo della sentenza, ma è stato il primo presidente della Corte, Giorgio Santacroce, ad aprire la prima finestra alla difesa di Berlusconi.
"Nulla vieta al collegio di poter stabilire che il termine di prescrizione sia successivo (al 1 agosto, ndr.) e che quindi la Corte possa, accogliendo le istanze difensive, disporre un rinvio", ha detto Santacroce ai media.
Gli avvocati di Berlusconi, Niccolo' Ghedini e Franco Coppi, quando hanno appreso della convocazione per il 30 luglio hanno manifestato sopresa e sdegno - segnando il tono del coro di critiche del Pdl - perché secondo i loro calcoli una parte del reato contestato si prescriverebbe non prima del 26 settembre e hanno lamentato una compressione del diritto di difesa, dovendo prepararsi in tempi più brevi del previsto.
Nell'universo del diritto processuale italiano il calcolo dei tempi di prescrizione appare come una delle cose più aleatorie. Se è vero, come riferisce una fonte legale, che la Corte d'appello di Milano che ha condannato Berlusconi ha inviato una lettera in Cassazione per dire che una parte del reato di frode fiscale si estingue il 13 settembre, ecco che la difesa potrebbe avere un argomento in più per chiedere un rinvio.
Berlusconi, da parte sua, ostenta notevole sicurezza. "Non sono solito esercitare la mia mente su fatti che ritengo non probabili", ha detto il Cavaliere ad una tv la scorsa notte all'uscita da una trattoria romana, con riferimento al rischio di incorrere nella prima condanna penale definitiva che lo escluderebbe dalla vita politica.
I suoi legali non si vogliono al momento pronunciare sulle stategie difensive, ma la richiesta di un rinvio dell'udienza non porterebbe molto lontano. Infatti, la sezione feriale della Cassazione, dice una fonte giudiziaria, non potrebbe che fissare una nuova udienza entro il 15 settembre, giorno in cui essa termina di lavorare, dando ai legali del Cavaliere poco più di un mese di ossigeno per limare le arringhe. Di certo, il rinvio - con il conseguente congelamento dei tempi di prescrizione - non favorirebbe la morte anticipata del processo, che arriverebbe comunque a sentenza.
A quel punto il processo in Cassazione potrebbe slittare ai tempi "ordinari"; fine anno o inizio 2014. Una manciata di mesi, certo, ma forse sufficienti perché il governo di sinistra-destra prenda il prossimo autunno le difficili scelte economiche più volte rinviate, senza il rischio di dover scontare le conseguenze di una condanna di Berlusconi.
UNA SENTENZA, TRE SCENARI (PIU' LA GRAZIA)
Quando la Cassazione pronuncerà la sua sentenza, il ventaglio prevede sostanzialmente tre ipotesi.
La prima, più favorevole al Cavaliere, è l'annullamento in toto della condanna d'appello senza alcun rinvio; Berlusconi prosciolto e libero (in attesa dell'esito del processo Ruby dopo la condanna di primo grado a Milano e del procedimento per compravendita di senatori a Napoli).
La seconda ipotesi, intermedia, vede la Cassazione accogliere uno o più motivi di ricorso contro la condanna di secondo grado e annullare la sentenza con rinvio ad un'altra corte di Appello per celebrare un nuovo processo o ricalcolare la pena (considerato che nel frattempo una parte del reato sarà prescritta).
La terza ipotesi è quella della conferma della condanna. In questo caso il premier non andrebbe in carcere; in quanto ultrasettantenne e con un solo anno di reclusione da scontare scatterebbe l'affidamento ai servizi sociali. Ma rischia di concretizzarsi il timore maggiore: decadere da senatore per effetto della pena interdittiva dai pubblici uffici.
L'ultimo step, in questo caso, spetta all'aula del Senato, che, con probabile voto segreto (per oscurare il tabellone elettronico basta la richiesta di soli 20 senatori), dovrà dare il via libera alla decadenza. Ma in caso di scioglimento delle Camere, Berlusconi non potrebbe candidarsi alle nuove elezioni, perché la pena avrebbe pieno effetto.
A quel punto a Berlusconi non rimarrebbe che il miraggio evocato da Libero, cioè un provvedimento di grazia del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
"Giorgio facci la grazia", titolava ieri il quotidiano del centrodestra. Sull'esistenza di questa ipotesi - secondo Libero lo stesso Berlusconi l'avrebbe evocata in un colloquio con Napolitano - fonti del Quirinale dicono che "queste speculazioni su provvedimenti di competenza del capo dello Stato in un futuro indetreminato sono un segno di analfabetismo e sguaiatezza istituzionale e danno il senso di un'assoluta responsabilità politica che può soltanto avvelenare il clima della vita pubblica".
Mediaset, Berlusconi esclude condanna, ma scenari sono incerti
E L'On. Razzi andò in Corea del Nord...
Il senatore del Pdl, celebre per le continue gaffe in interviste e in Parlamento, vola nel paese asiatico per incontrare il dittatore Kim Jong-Un. Ecco una videoraccolta dei suoi interventi migliori utile per fotografare la caratura internazionale del personaggio(24 luglio 2013) Ci siamo. Ventiquattro luglio duemilatredici. Il senatore del Popolo della Libertà Antonio Razzi si reca nel cuore della Corea del Nord. Per incontrare il dittatore Kim Jong-Un. Aspettando l'incontro del secolo, abbiamo pensato di regalarvi una sorta di 'meglio del peggio'.
Dopo un lungo lavoro di mediazione con gli ambasciatori delle due Coree - "con loro ho dialogato molto, ora vorrei farli incontrare nella pizzeria Da Mario, a Napoli", disse qualche tempo fa - ora il segretario della commissione Esteri è pronto a scrivere la storia, e riuscire laddove Barack Obama ha fallito. Portare pace e serenità in Corea, scongiurare la "minaccia atomica", "riunificare" la penisola, forte dell'amicizia che lo lega al leader di Pyongyang. Eh già, perché Razzi lo conosce davvero il buon vecchio Kim, o almeno così dice: "parliamo tedesco insieme, lui da giovane ha studiato a Berna, ed io facevo l'operaio proprio lì".
Certo, la preoccupazione è molta - è pur sempre il senatore che scambiò lo "spread" con qualche strana cosa relativa al commercio dei ciuchi (davvero) - ma Razzi ha giurato di essere in ottimi rapporti con l'establishment nordcoreano e, soprattutto, di "sapere tutto della politica internazionale, tutto!".
Oramai il dado è tratto. Il ministro degli Esteri Emma Bonino ed il presidente della commissione Esteri Casini sono al corrente di tutto. I colleghi del senatore, tra uno sganascio e l'altro, lo caricano dicendogli "daje Anto', ti daranno il Nobel per la pace!". Lui ci crede e replica che sì, "forse ci volevo proprio io, Antonio Razzi, per far cadere il 'Muro' coreano".
Approvato Il decreto del fare.... SCHIFO !
Riforma Imu, così si cambia Sconti ed esenzioni nel 2013 poi tassa unica con la Tares
Una riunione ancora interlocutoria, ma che apre degli spiragli. E che consente al ministero dell’Economia di affermare che «soluzioni condivivise» sui nodi Imu e Iva sono in dirittura d’arrivo. In che tempi? E qui, bisogna distinguere: per l’Iva Maurizio Saccomanni ha spuntato una piccola vittoria. Se si vorrà cambiare la copertura individuata con l’anticipo degli acconti Ires, Irpef e delle ritenute delle banche «sarà compito della maggioranza parlamentare individuare e proporre eventuali correttivi», afferma il comunicato diffuso dal Tesoro al termine dela tavolo tecnico con i partiti di maggioranza. L’occasione sarebbe il decreto del Fare, che ieri è tornato dall’aula in commissione alla Camera con tempi che rimangono stretti in vista del passaggio al Senato.
Per l’Imu invece, si va verso una ridefinizione complessiva che assomiglia sempre più alla Council Tax inglese: una tassa municipale unica che ingloberebbe l’Imu, l’addizionale Irpef, la Tares e che diventerà il pilastro della finanza locale. Ma che andrà a regime nel 2014. Per quest’anno invece si allontana l’ipotesi di un’abolizione secca dell’imposta sulla prima casa che costerebbe 4 miliardi di copertura, difficili da reperire se non con tagli significativi o nuove tasse. Si cerca dunque una «soluzione condivisa» che tenga comunque conto delle richieste del Pdl di dare un segnale forte ma che, in attesa della riforma catastale alla quale si sta pure lavorando, garantisca quei criteri di equità sui quali il Pd non è disposto a cedere. Come? Probabilmente considerando il valore reale dell’immobile, il che significa in qualche modo agganciarlo alla superficie e ai parametri di mercato, prendendo intanto quelli dell’osservatorio immobiliare dell’Agenzia delle Entrate. E mantenendo la tassa sugli immobili di prestigio, in una formula più ampia delle attuali categorie A8 e A9, in modo di ridurre il problema della copertura. La sintesi arriverà in tempi ravvicinati, dicono i partecipanti all’incontro, passando prima attraverso nuovi incontri bilaterali tra il Tesoro e i singoli partiti di maggioranza e poi attraverso una nuova riunione collegiale che potrebbe arrivare anche la prossima settimana. Il fatto certo, conferma il comunicato del ministero dell’Economia, è che la soluzione definitiva arriverà entro agosto. CARTE COPERTE All’uscita del vertice, dunque, si profila una via d’uscita. La linea generale, dopo i toni accesi dei giorni scorsi, è low profile. Si punta l’attenzione sul «metodo di lavoro», sulla riunione ancora «interlocutoria» in vista dei prossimi appuntamenti ravvicinati. E così tutte le dichiarazioni ufficiali sono prudenti come quelle di Linda Lanzillotta, vice presidente del Senato, che ha partecipato all’incontro per Scelta civica. «Abbiamo impostato un metodo - afferma - per riuscire ad arrivare entro il 30 agosto ad una proposta di rimodulazione dell’Imu». Da notare: rimodulazione e non abolizione. «Abbiamo inoltre sottolineato - prosegue - come questo intervento deve avvenire con adeguate coperture, tenendo fermi gli equilibri di finanza pubblica e realizzando una più equa ridistribuzione della tassazione», conclude la senatrice di Scelta civica che chiede norme per la dettassazione dell’Irap nella legge di stabilità. Tacciono Matteo Colaninno e Renato Brunetta, che hanno partecipato alla riunione per conto rispettivamente del Pd e del Pdl. Ma al di là delle dichiarazioni e dei silenzi, l’impressione è che qualcosa si stia muovendo anche se tutti i protagonisti della trattativa, partiti da una parte e governo dall’altra, aspettano che sia l’altro a fare la prima mossa. Il Pdl ha presentato all’esecutivo una bozza di articolato che anticipa la riforma della tassazione sugli immobili, incluse le coperture. Il Pd punta su sconti ed esenzioni legati a superfice e reddito. A tutti Saccomanni ha distribuito la sua rassegna delle ipotesi possibili, modulata sulla base dei costi: tanto più ampia sarà la revisione dell’Imu, tanto maggiori i fondi da reperire per finanziarla. In attesa che qualcuno faccia il primo passo, la consegna per ora è di muoversi con prudenza politica. Ed arrivare così al compromesso finale. |
Il fallimento di Detroit è il fallimento del capitalismo
Alla fine di una delle giornate più calde di questa bollente estate americana, Detroit entra ufficialmente nel suo inferno: arriva infatti nel tardo pomeriggio il via libera alle procedure previste dalla legge per il fallimento della città. La capitale dei motori e della musica nera conquista così il non invidiabile record della bancarotta più grande della storia americana. E’ la prima metropoli ad arrendersi davanti all’impossibilità di pagare i propri debiti che oscillano tra i 18 e i 20 miliardi di dollari.
Il commissario straordinario, Kevyin Orr non è riuscito nel miracolo che gli aveva chiesto a marzo il governatore del Michigan Rick Snyder. Che ora si limita a dire: “Mi sembra che non ci sia altra soluzione”. Eppure Orr ci ha provato in tutti i modi: ore al tavolo delle trattative con i creditori per convincerli ad allentare la presa, poi ancora con i sindacati per provare ad ottenere un via libera a tagli del personale e riduzione delle retribuzioni. Al termine di una riunione più difficili, verso la fine di giugno sbotta davanti ai microfoni: “Servono sacrifici dolorosi e devono essere condivisi da tutti. Ognuno deve fare la sua parte, altrimenti sarà la bancarotta”.
Ma non c’è stato niente da fare, i manifestanti rimangono sotto il suo ufficio con i cartelli: HANDS OFF OUR PENSIONS, giù le mani dalle nostre pensioni. E così dopo anche gli ultimi no, ecco la decisione non piùrinviabile. Una mossa rischiosa e quasi paradossale, che arriva infatti nel momento in cui il settore dell’economia privata è in decisa ripresa. I tre giganti dell’auto Gm, Ford e Chrysler sono fuori dal tunnel: la produzione è ripartita, i contratti girano e anche secondo l’ultimo Beige Book della Fed il mercato delle quattro ruote è destinato a tornare sul bello stabile. Il New York Times raccontava due giorni fa del “miracolo di Jefferson North”, la fabbrica dove la Chrysler/Fiat produce la nuova Jeep Grand Cherokee destinata a portare nelle casse della società quasi due miliardi di dollari: “Un segno di speranza , la prova che la spirale negativa della città può essere interrotta”.
Persino il settore immobiliare segna qualche timido accenno di ripresa con il ritorno di investimenti nella parte più ricca. Ma la desertificazione dei quartieri, soprattutto quelli periferici, è la causa scatenante che ha portato al Chapter 9, la pratica che regola i fallimenti delle municipalità. “Siamo una grande città, ma siamo in declino da oltre sessant’anni”, dice Orr nella sua conferenza stampa più triste. Come rimanere a vivere da soli dentro una palazzo: la manutenzione costa, i servizi costano, tutto costa mai soldi non entrano più, visto che la base fiscale a cui far pagare le tasse si è ridotta. Dai quasi 2 milioni degli anni Cinquanta agli ottocentomila abitanti scarsi di oggi, dal 2000 un balzo all’indietro del 26%: il calo è vertiginoso. Una città dentro la città di quasi ottantamila edifici è disabitata, il 40% delle luci stradali non funziona, vigili del fuoco e polizia sono al limite della loro operatività. Gli agenti rispondono al numero delle emergenza, il 911, quasi con un’ora di ritardo, la media nazionale è di 11 minuti. Al contrario della criminalità che invece funziona benissimo contendendo a Chicago il record di violenza e omicidi. E sale pure la disoccupazione che negli ultimi dieci anni è passata dal 7.6% al 18,6%.
A peggiorare la situazione decenni di amministrazione pubblica a cavallo tra l’incapacità e il malaffare, con un’altalena di operazioni finanziare sbagliate, intervallate da veri e propri episodi di corruzione. Per questo un avvocato che ha seguito altri fallimenti pubblici e che conosce bene il caso di Detroit spiega al New York Times: “Non basterà sanare il debito, serve un cambio strutturale di tutta la gestione a partire dagli stipendi dei lavoratori pubblici, altrimenti da qui a pochi mesi i problemi torneranno uguali ad adesso”. E un altro sul Washington Post usa una metafora eloquente: “Come se fossimo stati investiti da una Katrina, ma lunga dieci anni”.
Quando riceverà il via libera ufficiale, il commissario potrà procedere a vendere gli asset per trovare un po’ di ossigeno. Una decisione, la sua, molto contrastata all’interno della metropoli, con i manager delle aziende private che hanno provato in tutti i modi a fargli cambiare idea. Spaventati dalle conseguenze imprevedibili di questa strada, a partire dal discredito gettato sul brand. Essendo il primo caso così grande, gli esperti infatti si dividono nei commenti sui media americani su quello che potrebbe accadere adesso. E lo stesso Obama segue passo dopo passo la situazione e i suoi collaboratori sono in stretto contatto con il commissario e il governatore. L’impressione è che molte altre città, nella stessa situazione, siano alla finestra per capire dove porta la strada della bancarotta: “Come se avesse ceduto una diga”, dice un’analista alla Cnn. Non resta che vedere se l’onda sarà bella da cavalcare o se travolgerà le speranze di Motor City.
La crisi che nell’autunno del 2008 ha minato profondamente il sistema finanziario e bancario americano, allargandosi in breve tempo come uno tsunami, ha avuto e avrà effetti profondi sull’organizzazione economica e sociale e porta oggi in dote il fallimento di una delle più grandi città americane. Non è stata una semplice crisi: per la prima volta dagli anni Trenta gli Stati Uniti hanno dovuto fare i conti con uno spettro che credevano di avere definitivamente allontanato, quello della depressione economica. A più di 4 anni dal fallimento della Lehman Brothers, abbiamo il dovere di analizzare le cause, gli errori della politica, le reazioni iniziali e le prospettive future. Dobbiamo fare una lucida autocritica che metta in discussione la reale validità di questo capitalismo, e che si chieda se sia giunto il momento di ripensare un nuovo ordine economico.
Il gioco del Cavaliere
Di fronte alla falange berlusconiana c'è un Pd allo sbando, con un segretario che difende la scelta sciagurata di piegare il Parlamento alla battaglia contro la magistratura. Forse pensando di chiudere la stalla quando i buoi sono usciti da un pezzo. Il Pd in realtà lascia gestire a Berlusconi il proprio congresso e intanto scivola nel gorgo masochista in cui il gruppo dirigente ogni giorno affonda un po'. Lacerato da una guerra intestina senza quartiere, impegnato nell'eroica battaglia a chi affonda meglio il coltello nella piaga dell'avversario interno. Una rissa mediatica combattuta nel vuoto spinto della politica, mentre corre sotto traccia una riforma della Costituzione che dovrebbe regalarci l'elezione diretta di un presidente-caudillo, uomo forte al comando di un paese economicamente annientato da una destra che ha deciso chi saranno i sommersi e chi i salvati.
Chi mai avrebbe immaginato, nonostante peggiori presagi annunciati dal governo delle larghe intese, che il Pd potesse arrivare a sospendere i lavori del Parlamento perché la Cassazione aveva evitato la prescrizione di uno dei processi di Berlusconi? Neppure il più cinico osservatore della politica nazionale, nemmeno il più sconfortato militante rimasto a casa alle ultime elezioni avrebbe spinto la propria disillusione al punto di prevedere una fine così indecorosa di un gruppo dirigente già tramortito e umiliato da un governo sterilizzato nella provetta presidenziale.
Il deserto sociale in cui siamo sprofondati di fronte alla degenerazione estremista del berlusconismo, ai disastri del montismo, al fantasma di una sinistra che non c'è, rende persino difficile pensare di poter giocare la carta delle elezioni. Anche questa estrema riserva della democrazia sembra un'arma debole.
Inciucio kazako
Alfano-Bonino le dimissioni non sono cosa normale?
Il ministro degli Interni Angelino Alfano si deve dimettere subito, per la vergognosa figura in cui ha sprofondato l’Italia con il caso Ablayazov. Inizia con un attacco durissimo al responsabile del Viminale l’editoriale odierno de “La Repubblica”, firmato dal suo direttore, Ezio Mauro. Una critica che coinvolge anche il ministro degli Esteri Emma Bonino, accusata anch’ella di essersi comportata in modo ponziopilatesco sulle responsabilità del governo italiano sul trasferimento in patria della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. Secondo Ezio Mauro l’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, avvenuta con una maxi operazione della polizia, che ha consegnato al satrapo Nazarbaev la famiglia di uno dei più noti dissidenti del suo regime, che si basa sullo sfruttamento del gas, è di per se motivo di chiaro imbarazzo per qualsiasi governo democratico. Le ricchezze minerarie regalano al Kazakistan una forte rete di complicità internazionali, nelle quali, rimarca il direttore de “La Repubblica”, c’è in prima linea anche il “putiniano Berlusconi”: un fattore di ulteriore sdegno provocato da questa vicenda.
Lo scenario nel quale è avvenuto il caso Ablyazov dovrebbe motivare una chiara assunzione di responsabilità da parte dei vertici istituzionali, ma ci sono ulteriori motivi che rendono necessarie le dimissioni di Angelino Alfano. Il ministro dell’Interno, e vice presidente del Consiglio, ha pubblicamente dichiarato di non aver saputo alcunché sull’operazione che ha riportato Alma Shalabayeva e sua figlia Alua in Kazakistan. Come rimarca Ezio Mauro, “un ministro che non è a conoscenza di un’operazione del genere e non controlla le polizie è insieme responsabile di tutto e buono a nulla: deve dunque dimettersi”. Una richiesta di dimissioni rafforzata dal contatto tra il capo di Gabinetto del Viminale e l’ambasciatore kazako a Roma che ha dato il via all’operazione. “Se Alfano era il regista del contatto, o se ne è stato informato, deve dimettersi perché tutto riporta a lui. Se davvero non sapeva, deve dimettersi perché evidentemente la sede è vacante, le burocrazie di sicurezza spadroneggiano ignorando i punti di crisi internazionale, il Paese non è garantito”.
La chiusa dell’editoriale di Ezio Mauro è dedicata ad il ministro degli Esteri, Emma Bonino. Il titolare della Farnesina si trova, sottolinea il direttore de “La Repubblica”, in una posizione di contrasto con il suo passato di dirigente del Partito Radicale, formazione che si è sempre distinta per la difesa dei diritti umani. Ora invece la Bonino difende “il non sapevo di un governo pilatesco”. Ezio Mauro consiglia al ministro degli Esteri di partire immediatamente per il Kazikistan, al fine di chiedere il ritorno in Italia di chi era arrivato nel nostro paese confidando nella tutela delle libertà delle democrazie occidentali. ” E per superare la vergogna di quanto accaduto, porti la notizia – tardiva ma inevitabile – delle dimissioni di Alfano”.
Almeno Emma Bonino parla e riconosce di star male, di perseguire la salvezza di madre e figlia nonchè la ricerca della verità fin dal 31 maggio scorso. Cioè il giorno in cui Alma e Alua Ablyazov furono trascinate a forza da poliziotti italiani a bordo di un aereo privato messo a disposizione del Kazakhstan per farne degli ostaggi innocenti nella caccia che il presidente-dittatore dà al suo oppositore Mukhtar Ablayzov. Mi auguro che Angelino Alfano sia consapevole della dimensione morale dell’accaduto: una donna innocente e sua figlia piccola private dallo Stato italiano della protezione cui avevano diritto, sequestrate ignorando il loro status di perseguitate, rifiutando di verificare la copertura diplomatica di cui godevano, consegnate a un regime ben noto per la sua illiberalità. Si chiama vigliaccheria, codardia. Un maschio siciliano amante della cavalleria dovrebbe sentirsi ferito nell’onore. Gridare, addirittura, dalla vergogna. Poi viene la politica, ma solo poi. Le amicizie col regime di Nazarbayev, gli interessi energetici e gli eventuali inconfessabili intrecci finanziari.
Di questa abiezione morale all’italiana fa parte anche l’esistenza, confermata in questa storia, di un sotto-livello dello Stato che sfugge al controllo dell’autorità politica. Il regno indisturbato dei Bisignani, tanto per capirci, cioè quei personaggi che sguazzano fra l’Eni e i servizi segreti e la magistratura e la diplomazia, precedendo e sottomettendo chi sarebbe titolato a prendere decisioni delicate. Piacciono molto, simili personaggi che, quando cadono in disgrazia, si difendono scrivendo libri di successo. Ma questa, rivelata dal caso Ablayzov, è la dimensione morale cui conducono il nostro paese.
Stop ai lavori parlamentari: PD-PDL, il patto eversivo che porterà alla "grazia" per il Cavaliere
Dunque, solo per ricapitolare: il Pd non commenta le sentenze della magistratura e tantomeno la calendarizzazione delle medesime, tanto più se si tratta della Corte di Cassazione perché secondo la litania di partito “le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi” non devono in alcun modo interferire con la vita del governo delle larghe intese. Contemporaneamente non ha visto particolari controindicazioni nel trattare con il suo partner di governo per ridurre ad una sola giornata, una specie di modica quantità eversiva, la sospensione dei lavori parlamentari agitata dal Pdl come una clava contro il massimo organo di giurisdizione, reo di aver applicato la legge.
Votare con il Pdl “una protesta” tecnicamente eversiva finalizzata dichiaratemente a “spaventare ed intimidire la Corte di Cassazione”, come ha riconosciuto persino Gaetano Pecorellagià difensore storico di Silvio Berlusconi, è sembrato al partito che vede in Grillo e nel suo Movimento un pericolo per la democrazia, opportuno e persino coerente con il suo ostentato quanto ipocrita low profil sul fronte politica-giustizia.
L’anticipazione della trattazione dell’udienza Mediaset da parte della Corte di Cassazione, additata come un terremoto e una mina sotto i piedi di Berlusconi è solo un provvedimento ordinario per evitare la prescrizione anche parziale, nell’ossequiosa applicazione della legge che prevede pure come l’udienza non possa essere dilazionabile oltre i 10 giorni dal suo inizio fissato per il 30 luglio.
Il primo presidente della Corte Giorgio Santacroce considerato “non ostile” da Berlusconi, sostenuto da Unicost, Magistratura Indipendente e non togati di area Pdl, agli antipodi del cliché da “Toga rossa”, ha dovuto spiegare in solitudine, davanti all’offensiva scatenata dagli scudi umani del Cavaliere e dagli organi di disinformazione annessi, la banale, elementare evidenza che“la Cassazione ha l’obbligo di determinare l’udienza di trattazione di ogni ricorso prima della prescrizione….a pena di responsabilità anche di natura disciplinare”.
Come inevitabile corollario, data la inquietante paradossalità della situazione, ha anche dovuto aggiungere che “non c’è stato nessun accanimento nei confronti del senatore Berlusconi, trattato come qualsiasi altra persona imputata in un procedimento con prescrizione imminente”. E in riferimento alle reazioni, misurando le parole, ha definito quelli rivolti alla corte “attacchi non consoni alla democrazia”.
Purtroppo nelle aule del Parlamento hanno trovato condivisione quanto meno implicita non soloattacchi verbali inimmaginabili, stigmatizzati peraltro da un magistrato che con parametri giornalisti si può definire “conservatore”. Il Pd ha platealmente accondisceso con il voto anche ad un fatto concreto ed inimmaginabile come la sospensione dei lavori parlamentari, quando peraltro, con plateale conflitto di interessi tra impunità del solito noto ed interessi dei cittadini, si doveva discutere di misure economiche e di Imu, il cavallo di propaganda preferito dalla banda berlusconiana.
Ma quello che non è stato messo abbastanza in evidenza è che se il Pd ha condiviso la reazione aberrante del Pdl ad un passaggio tecnico dovuto per il concreto rischio prescrizione nei 45 giorni successivi al periodo feriale, non si riesce nemmeno ad immaginare che cosa può essere chiamato ad avallare all’indomani della sentenza del 30 luglio.
Però ormai si può fondatamente prevedere come “lo sventurato” potrebbe rispondere all’appello-diktat del suo partner. Intanto i giornali di famiglia titolano già “In caso di condanna grazia a Silvio, ci sta anche Letta”. Figuriamoci se il Pd vuole essere “divisivo”.
Questa è stata “solo” una prova generale di pressione ed intimidazione in vista della sentenza. Fino a che punto vorrà spingersi il Pd nell’affiancare la forzatura eversiva nei confronti della magistratura, sfidata frontalmente e minacciata nella sua totalità, dagli odiati pm ai giudici di legittimità? Forse il Pd ha voluto, al di là delle dichiarazioni, dimostrarsi fin d’ora disponibile ad assecondare le pretese di impunità del senatore Berlusconi anche dopo un’eventuale sentenza definitiva di condanna negando con il voto contrario la decadenza dalla carica per interdizione?
Epifani con una vocina alquanto flebile ha tardivamente invitato il Pdl a “non tirare troppo la corda” perché così “si spezza”.
Ma forse farebbe bene da segretario, anche a seguito del circuito tragicomico innescato dalla lettera dei 70 contro “gli autogol” dove non si distinguono più i mittenti dai destinatari, a ricordare al partito di non tirare troppo la corda con gli elettori perché potrebbero anche non “pazientare” all’infinito.
Il Giusto Processo: lungo o breve, lo decide il Cavaliere!
Ricordate? Non è tanto tempo fa. Eppure ieri quando è stato ufficializzato che la Corte di Cassazione ha messo a ruolo il 30 luglio il processo Diritti tv, con almeno quattro mesi di anticipo sul calendario previsto, a tutto il Pdl sono saltati i nervi. «Neppure i processi di Falcone hanno avuto una corsia così accelerata in Cassazione» andava biasimando al Senato Giacomo Caliendo che di Alfano fu sottosegretario.
Se si esclude il sarcasmo di Galan («nuovo miracolo di Berlusconi, è riuscito ad abbreviare i tempi della giustizia»), è un rosario di lamentale e grida «in difesa della democrazia» e «contro l’eliminazione politica del leader del partito che ha avuto il 25 per cento dei voti» che accomuna tutte, ma proprio tutte le anime del partito del Cav. Persino un riconosciuto principe del foro, per competenza e garbo istituzionale, come il professor Franco Coppi si lascia andare a digressioni che non gli sono proprie. «Non ho mai visto un’udienza fissata con questa velocità: sono esterrefatto, sorpreso e amareggiato perché in questo modo si comprimono i diritti della difesa» ha detto il professore. Che in neppure due mesi deve impostare la difesa. Il processo compravendita Diritti tv vive dal 2005.
E siamo arrivati a oggi, otto anni dopo, senza ancora avere una sentenza definitiva per una lista di impedimenti che è bene ricordare sono stati tutti richiesti dall’imputato Berlusconi: un anno, 11 mesi e 9 giorni per i due leggi Alfano (poi entrambe bocciate dalla Consulta); un mese e 26 giorni per l’impedimento elettorale del Cavaliere; 33 giorni per altri impedimenti; una settimana per lo sciopero degli avvocati; un mese e 16 giorni (l’ultimo) per legittimo impedimento motivato dalla formazione del governo ed elezione del Presidente della Repubblica.
Dopo, in ogni caso, nulla sarà più come prima. Perchè il pareggio, in questa partita, ha una scarsissime possibilità. E perchè la sentenza è uno spartiacque nella vita politica del Paese e del centro destra, che si chiami Pdl o Forza Italia: Berlusconi, più che la condanna a quattro anni per frode fiscale (tre anni se ne vanno con l’indulto), teme i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e l’obbligo di lasciare il seggio di senatore. Il fax con la comunicazione della data è arrivato allo studio Coppi ieri a fine mattinata.
Tratterà il caso la sezione feriale della Suprema Corte. Quella speciale sezione, cioè, che viene formata apposta nel periodo delle ferie estive per sbrigare i processi urgenti per due motivi: perchè hanno imputati detenuti e perchè è alto il rischio prescrizione. Come è quello sui Diritti tv. Non si conoscono, quindi, ad oggi, nè il presidente nè i membri del collegio. Incertezza che viene vista con un qualche ottimismo dai difensori del Cavaliere.
Ora, al di là di tutto quello che può essere detto e sospettato sull’accellerazione dei tempi, il mistero si spiega con una parola sola, sempre la stessa: prescrizione. Che applicata all’iter e ai reati del processo Diritti tv, ha un andamento ancora più complesso. Per farla breve, ci limitiamo qui a dire che un pezzo di processo (la frode fiscale compiuta nell’anno 2002 pari a cinque milioni di fronte di 397 dichiarati) si prescive a metà settembre. E che solo per questo motivo, la Suprema Corte, se convocata nei tempi previsti (tra novembre e gennaio prossimi) sarebbe stata costretta a rinviare tutto il processo in Appello per rideterminare la condanna (4 anni più 5 di interdizione) che invece è stata comminata per il reato continuato dal 2001 (già prescritto) in avanti.
Morale: non sarebbe stato a rischio l’intero processo ma una parte; e comunque i nuovi rinvii sarebbero stati a loro volta troppo vicini alla prescrizione totale e finale (estate 2014). Il primo luglio gli uffici giudiziari di Milano, che in questi venti anni hanno fatto ogni tipo di slalom per scansare le prescrizioni spesso senza riuscirci, hanno inviato un fax in Cassazione per segnalare l’imminenza del rischio. Gli uffici della Cassazione si sono limitati a verificare l’esattezza del calcolo, complesso assai, arrivato da Milano. «L’ufficio giudiziario di Milano - spiegano al Palazzaccio - non ha fatto alcuna pressione. Si comportano così tutti uffici diligenti».
È stata segnalata l’imminenza della prescrizione «per uno dei reati addebitati (la frode del 2002ndr)» e «non importa - aggiunge la fonte in Cassazione - se c’è un altro reato che si prescrive nel 2014 (la frode del 2003, ndr) perchè il dovere del magistrato è quello di evitare ogni prescrizione, non solo quella che cade per ultima». I faldoni del processo, le 400 pagine del ricorso firmato da Ghedini e Longo con le 80 eccezioni e il fax degli uffici giudiziari di Milano, sono stati trasmessi per competenza alla Terza sezione penale della Cassazione, quella competente per i reati finanziari. È stato l’ufficio spoglio della Terza a constatare l’imminente prescrizione di uno dei due reati. E a trasmettere tutto alla sezione Feriale. Quella che non va in vacanza. Che non chiude mai. Nessuna accellerazione. Nessuna stortura. Tranne quella per cui un processo impiega otto anni per arrivare fino in fondo.
Caso Kazakistan.... sul GOVERNO ancora l'ombra del Caimano
Abolite le Province! Ma non la mia !
Insieme alle città e almeno quanto le Regioni, le Province servono a “posizionarci” e a definirci, rispetto agli altri “italiani” (come rilevano le indagini di Demos pubblicate, da quasi vent’anni, su Limes). Anche perché costituiscono sistemi urbani, economici, sociali e, in parte, politici omogenei. Non a caso le mappe elettorali che realizzo, da tanti anni, dopo ogni elezione hanno, come base, le Province. E, almeno fino a ieri, hanno riprodotto e dimostrato la sostanziale continuità dei comportamenti di voto, nel corso del dopoguerra. Coerentemente con i lineamenti economici e sociali del Paese. E delle sue province.
Anche per questo, invece di ridursi e di accorparsi – o di venire ridotte e riaccorpate –le Province sono sensibilmente cresciute, di numero, negli ultimi vent’anni. Perché delineano riferimenti importanti della storia e dell’identità sociale. Ma anche del potere locale. Perché, inoltre, coincidono con sistemi burocratici e assemblee elettive, molto difficili da ridimensionare, a maggior ragione: da cancellare. Tanto più che le Province hanno svolto e svolgono compiti importanti su base locale. Fra gli altri: in materia di trasporti, ambiente, edilizia scolastica. E poi: costituiscono il principale ambito di “mediazione” fra i Comuni e le Regioni. Soprattutto per i Municipi più piccoli, si tratta di istituzioni utili ad accorciare le distanze dai centri del Potere Stato-Regionale.
Per questo, fin qui, è sempre risultato difficile cancellare le Province o, almeno, ridurne il numero. E, anzi, mentre si discuteva in quale modo e misura ridimensionarle, si sono, invece, moltiplicate ancora. D’altronde, l’abbiamo detto, costituiscono dei luoghi di potere. Dove sono insediati attori politici, burocratici e socioeconomici poco disponibili a scomparire, oppure a farsi riassorbire in altri ambiti istituzionali e di potere.
C’è poi un’ulteriore questione. Riguarda la singolare via del federalismo all’italiana. Che si è sviluppata, dagli anni Novanta in poi, attraverso il trasferimento – e talora la duplicazione – di compiti e attribuzioni dal Centro alla Periferia. Dallo Stato agli enti locali. Non solo: attraverso la moltiplicazione dei centri e dei gruppi di potere locali. Un processo di cui è stata protagonista la Lega, ma non solo. Anche per questo i progetti volti a riassorbire le Province hanno avuto vita dura. Perché i maggiori partiti e, per prima, la Lega nel Nord si sono opposti alla prospettiva di perdere “potere” e risorse sul territorio. E, a questo fine, hanno brandito e agitato la bandiera del Federalismo. Dell’Autonomia Locale contro lo Stato Centrale.
Non è un caso, dunque, che l’attacco definitivo (così almeno si pensava) all’Italia delle Province sia stato lanciato un anno fa dal Governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Per ragioni “tecniche” molto ragionevoli, orientate dalla spending review. Dalla necessità di revisione e riduzione della spesa pubblica. Visto che il collage provincialista del nostro Paese è divenuto, come si è detto, sempre più oneroso e dissipativo. Non è casuale l’iniziativa di un anno fa. Dettata dall’emergenza. Favorita dalla “debolezza” politica degli attori che hanno agitato la bandiera del territorio negli ultimi vent’anni. Per prima la Lega, affondata, alle elezioni recenti. E aggrappata alle Regioni del Nord, dove è ancora al governo. D’altronde, la Questione Settentrionale appare silenziata. Messa a tacere dalla Questione Nazionale imposta dalla Ue e dalle autorità economiche e monetarie internazionali. Che esigono risparmi e tagli. E hanno rovesciato le gerarchie geopolitiche, sotto-ponendo la periferia al centro. Il territorio ai poteri della finanza e della politica globale.
Così, l’Italia Provinciale è divenuta un problema. Trattata come un vincolo di spesa, una variabile dipendente da controllare e orientare. Il governo Monti ha, dunque, proceduto, dapprima, all’abolizione dei consigli provinciali e, quindi, a una sostanziosa riduzione del numero delle Province (da 86 a 50, nelle Regioni a statuto ordinario). Per decreto legge, con procedura d’urgenza. In base, appunto, a motivi di emergenza. Procedure e motivi non compatibili con una materia “costituzionale”, com’è quella dell’organizzazione territoriale dello Stato. Di cui le Province sono parte integrante.
Così l’Italia Provinciale resiste ed esiste ancora. Malgrado i tentativi e la volontà espressa da molti, diversi soggetti politici ed economici, di ridimensionarla. D’altronde, due italiani su tre pensano che le province andrebbero almeno ridotte. Ma il 60% è contrario ad abolire la Provincia dove vive (Sondaggio Ipsos per l’Upi, novembre 2011). In altri termini: gli italiani sono disposti a “cancellare” o, comunque, a mettere in discussione la provincia degli altri. Ma non la propria. Per questo non sarà facile, al governo guidato da Enrico Letta, abolire le Province dal lessico geopolitico nazionale, come prevede il Ddl costituzionale, approvato nei giorni scorsi. Dovrebbe, infatti, ridisegnare non solo l’organizzazione ma, insieme, la stessa identità territoriale del Paese. Perché le Province, per citare Francesco Merlo, sono il Dna «che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali». Da Nord a Sud, passando per il Centro. E perfino a Roma. L’Italia: Provincia d’Europa e dell’Euro. Un Paese di compaesani (come l’ha definito il sociologo Paolo Segatti). Punteggiato di campanili e municipi. Unito dalle differenze. L’Italia Provinciale e Provincialista: riflette tendenze di lunga durata. Difficilmente verrà sradicata da un governo di larghe intese. E, dunque, di breve periodo.
Monti una SPENDING REVIEW che ci è costata di più !
Tagli agli sprechi? Razionalizzazione della spesa pubblica? Spending review? Promesse che sono rimaste tali. Soltanto parole, però. I ministri del governo Monti hanno fatto sempre il contrario di quanto dichiarato. Ed ora le medesime promesse, mai mantenute, sono state inserite nell’agenda Monti: una campagna elettorale basata sulle menzogne.
E’ stato il centro Studi Unimpresa a smascherare la bufala della riduzione della spesa pubblica, numeri diffusi da Bankitalia alla mano. Secondo questi dati, infatti, nei primi 11 mesi del 2012, sotto il governo Monti, sono stati spesi ben 32,6 miliardi in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando alla guida del Paese c’era invece Silvio Berlusconi. Una macchina pubblica che spende sempre di più, facendo collassare le casse dello Stato.
Tra gennaio e novembre del 2012 i pagamenti dello Stato, quindi spese correnti e spese in conto capitale al netto degli interessi sul debito, hanno raggiunto quota 406,3 miliardi di euro. Nello stesso periodo del 2011 la spesa pubblica si era fermata a 373 miliardi.
L’austerità c’è stata, ma solo per le tasche degli italiani: le entrate sono aumentate di 17,5 miliardi, sempre rispetto ai primi 11 mesi del 2012: in percentuale il 4,9%. Ma questo vuol dire soltanto che lo Stato italiano è riuscito a recuperare meno risorse, in gran parte tartassando gli italiani, rispetto a quante ne ha spese: tra 32,6 e 17,5 la differenza è di ben 15,1 miliardi.
Italiani impoveriti e Stato sempre più sprecone.
Le verità del datagate
Le rivelazioni sulla «sorveglianza totale» messa in piedi dalla Nsa hanno messo in moto un processo a valanga che sino ad ora sia gli Stati uniti che l'Europa ufficiale erano ipocritamente riusciti a tenere entro l'ambito delle attività giustificate dalla lotta al terrorismo, il santo graal buono per coprire anche le attività più incostituzionali perpetrate dai governi.
Al lavoro per fermare la valanga ci saranno sicuramente nei prossimi giorni tutte le segreterie diplomatiche dei paesi europei, infarcite di uomini semper fidelis all'asse Washington-Bruxelles. Cìò che, tuttavia, pare che nessuno riuscirà a coprire sono proprio le due vere "rivelazioni": ovvero che la Guerra Fredda non è mai finita, ma si è solo allargata, e che la lotta al terrorismo è stata ingegnerizzata, utilizzata per coprire ben altre attività.
L'Europa - con paesi a vari gradi di servaggio nei confronti del potere economico, politico e militare statunitense e quindi sottoposti a vari gradi di «sorveglianza totale» - è nel suo insieme e nelle sue alleanze extra-atlantiche considerata un avversario strategico degli Stati Uniti, tanto quanto lo sono la Cina e la Russia, dicono le rivelazioni di Snowden. Tranne - come ai bei vecchi tempi - la Gran Bretagna, cavallo di Troia dell'intelligence statunitense in Europa (si ricordi Echelon) e da sempre maggior ostacolo alla creazione di una Unione europea politicamente e militarmente indipendente.
La sorveglianza totale perpetrata sugli "alleati" europei, poi, è la prova più evidente che le migliaia di miliardi, di dollari e di euro - sottratti ai cittadini e al loro benessere dai governi delle due sponde dell'Atlantico in nome della lotta ad un terrorismo alimentato proprio dalle politiche statunitensi ed europee - sono andati a finanziare operazioni colossali di costruzione di un mascherato Stato di polizia su entrambe le sponde (e chissà che non si ampli l'altra valanga, quella degli accordi semi-segreti tra governi europei, servizi, e grandi compagnie di telecomunicazioni). Finita nel 1989 la coperta ideologica della lotta all'Unione sovietica e al suo sistema, il potere statunitense doveva trovare un altro santo graal per continuare a convogliare immense risorse verso gli apparati militari e di intelligence: lo «scontro di civiltà» teorizzato da Samuel Huntington inventava negli Stati uniti le nuove frontiere dello scontro tra popoli, mentre i primi programmi anti-terroristici delle amministrazioni Clinton (1992-2000) trasformavano risposte mirate ad atti criminali in una strategia globale infinita. Gli eventi dell'11 settembre del 2001 si incaricheranno di suggellare e di consegnare a Bush junior il santo graal.
L'Europa, al carro delle guerre degli Stati Uniti, cadeva pienamente nella trappola (o entusiasticamente vi aderiva), credendo di poter così contenere una guerra economico-politica con Washington che è invece nei numeri dell'economia mondiale e nello scontro tra una potenza in declino relativo come gli Stati Uniti e le potenze emergenti. Che a Washington, al di là della facciata, siano convinti dell'inevitabilità di quello scontro è lì da vedere, ma tutto si giocherà sulla capacità dell'Europa dei poteri forti di raccogliere la sfida e convogliarla verso un più esplicito ed autonomo imperialismo europeo. Ai lavoratori decidere se ci possa essere una terza via.
Il pacchetto lavoro di Letta «moltiplica la precarietà»
Piergiovanni Alleva, giurista del lavoro, già responsabile della consulta della Cgil, è carico come una pila. Il decreto Letta sul lavoro che riforma i contratti a termine, sui quali era intervenuta appena un anno fa l’ex ministro Elsa Fornero, proprio non riesce a digerirlo. Per lui «è un monumento equestre all’ipocrisia nazionale». La sua indignazione l’ha esposta per filo e per segno in una lettera aperta indirizzata al segretario pro tempore del Pd Guglielmo Epifani, che conosce bene dopo anni di collaborazione in Cgil, quando Epifani faceva il segretario generale. Per Alleva, appoggiando il governo Letta, il Pd avrebbe «mascherato il più micidiale attacco mai portato ai diritti dei lavoratori come semplice misura di supporto all’occupazione giovanile».
Professor Alleva, come mai trova così «ipocrita» questo decreto?
Nell’articolo 2 si parla del contratto a termine come una misura temporanea valida fino al 2016. Si prevede che solo il 5% di questi contratti possa essere «acausale», cioé che il termine automatico di scadenza potrebbe essere apposto al contratto anche senza una ragione specifica o causa. Inoltre si prevede che il primo contratto duri non più 12 ma 18 mesi. Viene considerata una misura temporanea che aumentare l’occupazione. L’articolo 6 è il piatto forte perché cancella il divieto di proroga a questo contratto. Quindi, in sostanza, il primo contratto può essere prorogato fino a 24 mesi e dopo l’azienda può prendere un altro lavoratore e fargli fare la stessa trafila. Poi arriva la misura davvero ipocrita: l’acausalità generale viene ammessa purchè sia stabilita in contratti collettivi, firmati dai sindacati rappresentativi, a qualisasi livello compreso quello aziendale.
Che cosa significa?
Lo scopo è rendere i contratti a termine acausali. In un paese dove è stato modificato l’articolo 18, dove il 90% dei nuovi assunti sono precari, si stabilisce che i contratti a termine possano essere usati in alternativa al contratto a tempo indeterminato. Immagini le conseguenze di questo. Il governo vuol far fare ai sindacati ciò che ipocritamente non ha voluto fare direttamente
Cosa, di preciso?
Si prevede che a livello aziendale si possa derogare ai diritti universali dei lavoratori stabiliti dalla contrattazione nazionale collettiva. Guardi, questo è stato l’obiettivo di tutti i governi da molti anni a questa parte. Il primo è stato Berlusconi con il collegato lavoro del 2010 che ha posto un termine molto breve per impugnare il contratto a termine illegittimo e chiederne la trasformazione in tempo indeterminato. È stata una cosa vile: si sa che chi viene lasciato a casa, in questi casi ci pensa due volte prima di andare dal giudice. Le imprese vengono così istigate a fare contratti a termine, a pagare poco i lavoratori e a non preoccuparsi delle conseguenze, tanto non succede niente. Quella in atto è una sanatoria continua di un’illegittimità di massa contraddetta a livello europeo dalla direttiva 70 del 1999 che impedisce di prolungare i contratti a termine oltre i 36 mesi. Su questo punto in particolare esiste una grandissima ipocrisia. Il governo sembra ignorare completamente il fatto che ci muoviamo in un'area europea dove il contratto a termine in europa non è mica libero. Il contratto a termine è sempre temporaneo. In Francia è addirittura a numero chiuso. In Germania il primo contratto è libero in un quadro di assoluta causalità. Lo si fa una sola volta e a condizione che non ci sia stato un’altro periodo analogo in precedenza.
É lo stesso problema sollevato dall’Anief e dalla Flc-Cgil per i precari della scuola. Monti e Fornero, invece, cosa hanno fatto?
Hanno previsto la causalità solo per il primo contratto. La Fornero, nella sua empietà, ha avuto il pudore di dire che questo contratto non era prorogabile. Lo considera come una prova lunga 12 mesi anche se per legge non può durare più di sei mesi. Insomma, avevano trovato un altro modo per aggirare la legge. Ma comunque poi prevede l'assunzione. Era l’anno scorso, mica un secolo fa.
Ed è questo il punto modificato da Letta e da Giovannini i quali assicurano che daranno i soldi alle aziende che assumono a tempo indeterminato...
Stanno dicendo alle aziende che se trasformano il contratto a termine gli daranno soldi. Questi incentivi sono in realtà finanziamenti a pioggia. Il problema è che in Italia non c’è domanda di lavoro. Questi incentivi non faranno assumere nessuno e si presteranno a fenomeni speculativi da parte delle aziende.
Perché la Cgil approva questa iniziativa?
Spera di poterlo bloccare. Piuttosto che avere l’acausalità per legge, useranno l’acausalità nella contrattazione aziendale e così sperano di potere tamponarne gli effetti. Per me questa è una strada molto rischiosa perché questo tipo di contrattazione ha le sue debolezze. Quando c’è una disoccupazione strutturale come oggi, sappiamo bene cosa possono arrivare a prevedere i contratti aziendali. Non credo che una piccola Rsu possa rifiutare un accordo dove, in cambio di 50 contratti a termine, l’azienda assume 4 o 5 persone.Spero che i sindacati resistano a questa tentazione.Questo è il punto gesuitico dove si sono infilati Letta e Giovannini.
Martedì ci sarà l’udienza sul ricorso Fiom contro l’esclusione dalle Rsa di New Holland e Maserati. Come andrà a finire?
È un momento in cui ci stiamo giocando il diritto del lavoro e sindacale. È chiaro se dovesse valere il principio per cui la Fiat si sceglie i sindacati con cui contrattare, allora Marchionne ci metterà tre giorni per imporre l’acausalità dei contratti a termine. Figuriamoci se gli altri sindacati non glielo faranno fare. Il decreto Letta gli ha steso un tappeto rosso.
Professore, Epifani le ha risposto?
No, se non indirettamente e in maniera non molto piacevole. Lasciamo stare, non mi sono offeso. La mia lettera è un affettuoso strappone alla giacca. Epifani sa cosa deve fare: una legge sulla rappresentanza, abolire l’articolo 8, garantire la presenza dei sindacati nelle fabbriche. Poi magari mi potrà anche denunciare per stalking.
Disoccupazione record: è al 12,2% E fra i giovani arriva a quota 38,5%
ROMA - Disoccupazione ancora in crescita a livelli record: a maggio il tasso è salito al 12,2%, 0,2 punti percentuali in più rispetto ad aprile e 1,8 rispetto allo stesso mese del 2012. Lo rileva l'Istat, segnalando che è il nuovo massimo storico, il livello più alto sia dalle serie mensili (gennaio 2004) che da quelle trimestrali, avviate nel primo trimestre 1977, cioè 36 anni fa. Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24anni) a maggio è però calato al 38,5%, 1,3 punti percentuali in meno rispetto ad aprile, ma in rialzo di 2,9 punti su base annua. Tra i 15-24enni le persone in cerca di lavoro sono 647 mila e rappresentano il 10,7% della popolazione in questa fascia d'età. A maggio il numero di disoccupati era pari a 3 milioni 140 mila persone, 56 mila in più rispetto al mese precedente e 480 mila in più rispetto all'anno scorso. Lo comunica l'Istat spiegando che l'aumento interessa sia la componente maschile sia quella femminile. A maggio 2013 gli occupati sono 22 milioni 576 mila, in diminuzione dello 0,1% rispetto ad aprile (-27 mila) e dell'1,7% (-387 mila) su base annua. Sempre secondo i dati provvisori diffusi dall'istituto, il tasso di occupazione, pari al 56%, diminuisce di 0,1 punti percentuali nel confronto congiunturale e di 1 punto rispetto a dodici mesi prima. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,2% rispetto al mese precedente (-35 mila unità) e dello 0,9 % rispetto a 12 mesi prima (-127 mila). Il tasso di inattività si attesta al 36,1%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,3 punti su base annua . |
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