Come è stato segnalato dal “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times, le attuali politiche economiche stanno accentuando i divari tra i paesi membri dell’eurozona. In queste condizioni l’unione bancaria, anziché salvaguardare i paesi più deboli, potrebbe accelerare la “mezzogiornificazione” delle periferie europee.
Lo scorso settembre il Parlamento europeo ha approvato il progetto di legge che trasferirà le funzioni di vigilanza bancaria dagli stati membri dell’eurozona alla Banca centrale europea. Vi è chi ritiene che questa ulteriore cessione di quote di sovranità nazionale a favore delle istituzioni comunitarie rappresenti la giusta strategia per uscire dalla crisi. Invocando “più Europa”, si dice, costringeremo i governi del Centro e del Nord dell’Unione ad uscire dalla tana nazionalista in cui ultimamente tendono a rifugiarsi. In effetti questa linea di condotta fortemente europeista non costituisce una novità per il nostro paese. Varie volte il processo di integrazione comunitaria ha rischiato di arenarsi ed è stato rimesso in moto grazie a improvvise accelerazioni impresse proprio da governi italiani. Tra gli esempi, Tommaso Padoa Schioppa usava ricordare l’elezione diretta del Parlamento europeo, decisa nel 1975 sotto la spinta della presidenza italiana, nonostante le obiezioni di Gran Bretagna e Danimarca; e l’Atto Unico Europeo del 1985, stipulato grazie alle pressioni italiane per un voto a maggioranza, contro il parere di Margaret Thatcher.
Soprattutto in tempo di crisi, tuttavia, una strategia basata su “più Europa” rischia di produrre spiacevoli effetti collaterali se viene portata avanti solo in alcuni settori mentre si arena in altri. Il completamento della unione bancaria europea è un caso emblematico, in questo senso.
I suoi sostenitori si augurano che l’unione bancaria dia presto vita all’agognata assicurazione europea sui depositi. Inoltre, essi affermano che l’unione potrebbe permettere alla Bce di svolgere con più informazioni, e quindi con maggiore incisività, l’invocato ruolo di prestatore di ultima istanza. Secondo i fautori, dunque, la cessione del potere di vigilanza favorirebbe soprattutto l’Italia e gli altri paesi periferici dell’Unione. Questi infatti patiscono la crisi più degli altri, e risentono quindi in modo particolare delle incertezze sulla robustezza patrimoniale dei loro istituti bancari e sulla capacità dei loro bilanci pubblici di sostenerli in caso di emergenza. Pertanto, prima si completa l’unione bancaria meglio sarà per i paesi periferici dell’eurozona.
Il problema, come svariati commentatori hanno segnalato, è che per arrivare all’assicurazione europea dei depositi e al prestito di ultima istanza bisognerebbe accettare una piena cessione alla Bce delle decisioni sulle future ristrutturazioni bancarie. L’istituto di Francoforte assumerebbe in tal caso un ruolo cruciale nella valutazione delle condizioni di solvibilità degli istituti di credito e nelle decisioni conseguenti circa l’opportunità di favorire liquidazioni, acquisizioni e fusioni bancarie su scala europea. Tuttavia, come è stato segnalato anche dal recente monito degli economisti pubblicato sul Financial Times, se lo scenario di politica economica non muta è ragionevole prevedere che le divaricazioni tra gli indici macroeconomici dei paesi centrali e quelli dei paesi periferici dell’Unione persisteranno, con effetti sui rispettivi bilanci bancari facilmente intuibili. La conseguenza è che l’Italia e gli altri paesi periferici potrebbero giungere all’appuntamento delle ristrutturazioni nello scomodo ruolo di debitori costretti a liquidare le banche alle condizioni fissate dai potenziali acquirenti esteri.
Vi è chi ritiene che la questione della nazionalità del capitale bancario sia in fondo secondaria. Ma anche tra i più convinti europeisti vi è chi teme che trascurare del tutto il problema finirebbe per aggravare quella che Paul Krugman ha definito la “mezzogiornificazione” dei paesi periferici della zona euro. Il dibattito è aperto, ma forse su un punto si potrebbe tutti convenire: in una situazione in cui si fatica a intravedere una svolta nelle politiche macroeconomiche di convergenza, è difficile immaginare come potrà ridursi la forbice tra i redditi dei paesi membri e quindi anche tra i bilanci delle rispettive banche. In definitiva, gli effetti dell’unione bancaria dipendono dall’efficacia delle politiche macroeconomiche di convergenza. Se queste non funzionano, la stessa unione bancaria potrebbe dare risultati diversi da quelli auspicati.
Se l'unione bancaria non fosse la soluzione?
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