Se c’era bisogno della prova del nove per dimostrare che la vendita delle frequenze digitali sia una cura da cavallo per le disastrate finanze dello Stato, oggi è arrivata la conferma. Ilministero dello Sviluppo economico ha infatti aperto le buste con le offerte dei quattro operatori di telefonia mobile (Telecom Italia, Vodafone, H3G e Wind) pronti a darsi battaglia per conquistare quella porzione di etere liberata dal passaggio della televisione dalla tecnologia analogica a quella digitale. Con una gradita sorpresa: l’ammontare della cifra iniziale è di 2,3 miliardi di euro. Una somma destinata a crescere dato che il giorno dopo partirà l’asta vera e propria e le compagnie in gara potranno effettuare rilanci per accaparrarsi le ambite frequenze. Ad asta conclusa, la previsione che ha avanzato il ministroPaolo Romani è di 3,1 miliardi di euro. Soldi che dovranno essere iscritti al bilancio dello Stato entro fine settembre in modo da scongiurare altri tagli a ministeri e spesa pubblica da parte del Tesoro così come previsto nel Patto di stabilità.
Se i danari delle compagnie di tlc sono più che graditi alle casse dello Stato, così non è per quelli delle televisioni. Come ha scritto il fattoquotidiano.it, per assegnare le sei nuove super-frequenze digitali (i multiplex, in grado di trasportare fino a sei segnali televisivi cadauno, generati anch’essi dalla digitalizzazione dell’etere), governo e Agcom hanno optato per un beauty contest al posto di una normale asta competitiva. Ovvero saranno regalate alle Tv senza nessun corrispettivo in cambio.
“Il buon inizio dell’asta per le compagnie telefoniche è un precedente che rafforza la nostra battaglia”, dice Vincenzo Vita, senatore del Partito democratico, firmatario, assieme al collegaLuigi Zanda, di un emendamento alla manovra economica che chiede all’Authority per le comunicazioni di ripristinare un’asta competitiva anche per i multiplex. “Se facessimo così, potremmo racimolare più di un miliardo di euro andando ad alleggerire le misure della Finanziaria ‘lacrime e sangue’ che gravano sui ceti più deboli”, sostiene Vita.
La posizione del Pd è supportata anche dall’Italia dei valori che ha firmato l’emendamento Vita-Zanda e anche dal Terzo polo che, con Italo Bocchino, vicepresidente di Fli, attacca: “Regaliamo le frequenze televisive per motivi comprensibilissimi, perché sappiamo bene a chi devono essere regalate”. Alle televisioni come Mediaset, che entro il 6 settembre dovranno presentare le proprie proposte per aggiudicarsi il diritto di trasmettere su quelle bande per i prossimi 20 anni.
Tornando alla “gara gemella”, quella a cui hanno partecipato gli operatori telefonici, all’asta sono andati i lotti che corrono sugli 800 Megahertz, i più pregiati in assoluto, assieme ai 1800, 2400 e 2600 Mhz. Per quanto riguarda la “banda 800” (quella che ospitava i canali dal 61 al 69 della tv analogica), sono arrivate offerte che ammontano a 1,73 miliardi di euro da tutte e quattro le compagnie in corsa. Sui 1800 si conta solo un’offerta di Telecom Italia da 155 milioni, per i 2000 Mhz non ci sono offerte, mentre per quella 2600, utile per lo sfruttamento al meglio di quella 800, si contano varie offerte di H3G, Telecom e Wind da circa 30 milioni ciascuna.
Ma resta un’incognita che riguarda proprio la banda più pregiata. Per il momento gli 800 Mhz sono occupati dalle televisioni locali “in movimento” verso la tecnologia digitale. Il ministero del Tesoro aveva promesso 240 milioni di euro per lasciare quelle frequenze, troppo pochi per gli editori che ne vogliono almeno il doppio.
Quello che è certo, almeno per il momento, è che il governo non farà nemmeno un euro dalla gara che riguarda Rai, Mediaset e tutte quelle emittenti che hanno interesse ad accrescere la loro offerta accaparrandosi almeno uno dei sei multiplex offerti mediante beauty contest.
“E’ dal 2009 che lottiamo per mettere all’asta anche le frequenze della Tv digitale terrestre”, attacca Vita che ricorda un famoso precedente: quando il governo Amato nel 2001 riuscì a racimolare la bellezza di 26.750 miliardi di lire (quasi 14 miliardi di euro) vendendo, sempre alle tlc, la banda per sviluppare i servizi Umts. Ora, con questa nuova asta, i precedenti sono due. Chissà se il governo continuerà per la sua strada, o se al contrario si convincerà che a pagare i costi della crisi, oltre ai cittadini, possono essere anche le televisioni. Comprese quelle del presidente del consiglio.
Invece di aumentare l'IVA o asfissiare i cittadini con una pressione fiscale che tocca punte record, perché non vendere le frequenze che porterebbero miliardi, subito nelle disastrate casse dello stato?
Semplice. Perché Mediaset (leggi Berlusconi), dovrebbe pagarle, di tasca propria. Perché pagare lui se c'è il popolo italiano da "spennare"? Ancora dubbi sul conflitto d'interessi?
Il governo REGALA le frequenze TV, anche a MEDIASET!
Le conseguenze mondiali del declino statunitense
Immanuel Wallerstein
Oggi quella del declino, del grave declino degli Stati Uniti, è una banalità. La sostengono tutti, tranne alcuni politici statunitensi che temono di essere accusati del problema se ne discutono. Ma la verità è che oggi pressoché tutti sono convinti della realtà del declino. Quello di cui si è discusso molto meno è quali siano state e quali saranno le sue conseguenze mondiali. Il declino ovviamente ha radici economiche, ma la perdita del quasi-monopolio del potere geopolitico un tempo esercitato dagli Usa ha conseguenze politiche di notevole portata un po' ovunque.
Partiamo da un aneddoto riferito nella Business Section del The New York Times il 7 agosto. Un consulente finanziario di Atlanta «ha premuto il pulsante antipanico» per due ricchi clienti che gli avevano chiesto di vendere tutte le loro azioni e comprare un fondo comune di investimento un po' protetto. L'agente ha sostenuto che, in 22 anni di lavoro nel campo non gli era mai capitato di ricevere una simile richiesta. «Un episodio senza precedenti». Il giornale aveva definito la cosa come l'equivalente per Wall Street dell'«opzione nucleare». Andava contro il consiglio santificato di rispettare il piano d'investimento prescelto malgrado le oscillazioni del mercato.
Standard & Poor's ha declassato il credito degli Stati Uniti da AAA ad AA+, anche questo un fatto «senza precedenti». Ma si tratta di un'azione tutto sommato blanda. L'equivalente agenzia in Cina, Dagong, aveva già declassato il credito americano nel Novembre scorso ad A+, e adesso l'ha ridotto ad A-. L'economista, Oscar Ugarteche, ha dichiarato gli Stati Uniti una «repubblica delle banane». Ha detto che gli Usa «hanno scelto la politica dello struzzo sperando in tal modo di non annichilire le speranze ». E a Lima la settimana scorsa i ministri delle finanze degli stati del Sudamerica si sono riuniti per discutere con urgenza di come isolarsi meglio dagli effetti del declino economico statunitense. Il problema è che è molto difficile per chiunque isolarsi dagli effetti del declino degli Usa. Malgrado la gravità della loro decadenza economica e politica, gli Stati Uniti restano un gigante sulla scena del mondo, e qualunque evento su quella scena ancora produce grosse onde in tutto il resto del pianeta.
Certo il maggior impatto del declino Usa si avverte, e così continuerà ad essere, negli Stati Uniti stessi. Politici e giornalisti parlano apertamente della «disfunzionalità» della situazione politica statunitense. Ma come potrebbe non essere disfunzionale? Il fatto più elementare è che i cittadini degli Usa sono sconcertati dal dato stesso del declino. Non è solo che i cittadini soffrono materialmente per quel declino, e sono spaventati all'idea di dover soffrire ancora di più in futuro. Il fatto è che hanno creduto fermamente che gli Stati Uniti fossero la «nazione eletta» scelta da Dio o dalla storia per essere il modello del mondo. E il presidente Obama continua a ripetere loro che gli Usa sono un paese «tripla-A».
Il problema per Obama e per tutti i politici è che ormai solo pochissimi ancora ci credono. Lo shock per l'orgoglio nazionale e per l'immagine di sé è formidabile, ed è anche improvviso. E il paese sta reagendo malissimo. La popolazione cerca capri espiatori e si scaglia selvaggiamente - e senza troppa intelligenza - contro le parti presunte colpevoli. L'ultima speranza sembra essere quella di dare la colpa a qualcuno, il che permetterebbe di trovare un rimedio cambiando la gente al potere.
In generale, è sulle autorità federali che si punta il dito - il presidente, il Congresso, i due maggiori partiti. È molto forte la tendenza a chiedere più armi a livello individuale e una riduzione dell'impegno militare statunitense fuori del paese. Buttare tutta la colpa su chi sta a Washington porta a una volatilità politica e a lotte intestine ancora più violente. Gli Stati Uniti oggi sono, direi, una delle entità politiche meno stabili del sistema-mondo.
Questo rende le lotte politiche interne disfunzionali e fa degli Stati Uniti un paese incapace di esercitare vero potere nel mondo. Di conseguenza si assiste a una grave caduta di fiducia nei confronti degli Usa e del loro presidente da parte dei paesi stranieri tradizionalmente alleati degli americani e della base politica del presidente in patria. I giornali sono pieni di analisi degli errori di Barack Obama. Chi può dare loro torto? Potrei facilmente elencare decine di decisioni prese da Obama che a mio parere erano erronee, codarde e qualche volta decisamente immorali. Ma mi domando: se avesse preso le decisioni tanto migliori che la sua base ritiene avrebbe dovuto prendere, avrebbe davvero fatto tanta differenza? Il declino degli Usa non è il risultato delle decisioni improvvide del suo presidente, ma delle realtà strutturali del sistema-mondo. Obama può ancora essere l'uomo più potente del mondo, ma nessun presidente degli Stati Uniti è o potrebbe essere potente come quelli di un tempo.
Siamo ormai in un'era di fluttuazioni acute, rapide e costanti - nei tassi di cambio delle valute, in quelli di occupazione, nelle alleanze geopolitiche, nelle definizioni ideologiche della situazione. La rapidità e la portata di quelle fluttuazioni produce l'impossibilità di fare previsioni sul breve periodo. E senza una certa ragionevole stabilità sulle previsioni di breve periodo (tipo tre anni), l'economia-mondo è paralizzata. Tutti dovranno essere più protezionisti e introspettivi. E il tenore di vita scenderà. Non è un bel quadro. E anche se ci sono tantissimi aspetti positivi per molti paesi proprio per via del declino Usa, non è affatto detto che - nei violenti sballottamenti della barca dell'economia mondiale - altri paesi riusciranno davvero a trarre il profitto che sperano di trarre dalla nuova situazione.
È giunta l'ora di dedicarsi ad una ben più sobria analisi sul lungo periodo, di dare giudizi morali più chiari su quello che l'analisi rivela, di una ben più efficace azione politica negli sforzi dei prossimi 20-30 anni per creare un sistema-mondo migliore di quello in cui oggi siamo tutti impantanati.
Il trio che cambiò la manovra! demagogia o realtà?
Addio al contributo di solidarietà, nessuna modifica all’Iva, riduzioni dei benefici fiscali per le società cooperative, ridotti di due miliardi i tagli agli enti locali. Ma soprattutto un annuncio che sa di bluff: “Abolizione di tutte le province e dimezzamento del numero dei parlamentari per via costituzionale”. Cioè con tempi lunghissimi per via del doppio passaggio nei due rami del Parlamento, con maggioranza qualificata per evitare il referendum. E poi un intervento tutt’altro che leggero sulle pensioni, calcolate solo “in base agli effettivi anni di lavoro”, escludendo servizio militare o anni universitari. Dalle prime indiscrezioni sulle modifiche alla stangata decise nel faccia a faccia-fiume tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi esce l’immagine di una manovra stravolta. E pensare che, solo una settimana fa (era il 22 agosto), il Senatùr affidava al fido Calderoli il diktat della Lega in un comunicato ufficiale: “No secco, da scrivere sul marmo, a interventi sulle pensioni. Le norme contenute nel decreto legge non sono suscettibili di modifica vista l’intesa raggiunta a riguardo tra Bossi e Berlusconi”. Il leader leghista per tutto il mese, a più riprese, ha espresso la sua ferma resistenza a interventi sul sistema previdenziale. Propositi che non hanno avuto alcun seguito nella discussione di oggi.
Oggi ci si aspettava un incontro lungo, ma nessuno immaginava che i due restassero chiusi per sette ore a villa San Martino: dalle 11 alle 18. Pochi giorni fa, dopo un dibattito a Bergamo, il segretario Pdl Alfano, il ministro dell’Interno Maroni e il ministro per la Semplificazione Calderoli(tutti e tre presenti all’incontro, insieme al ministro Tremonti) avevano detto che sulla manovra era già stata trovata “la quadra”. Insomma, nelle intenzioni degli aspiranti leader dei due partiti, tutto era stato risolto. Ma non avevano ancora fatto i conti con il Cavaliere e il Senatùr, e soprattutto con il superministro dell’Economia (che al termine del vertice ha commentato: “Molto bene”). A questo punto, ammettendo che alla fine l’accordo si sia trovato davvero, appare sempre più probabile l’ipotesi meno gradita alle opposizioni, cioè un maxiemendamento che si accompagnerebbe a un voto di fiducia. Il comunicato finale di Palazzo Chigi spiega che “il governo e il relatore presenteranno le relative proposte emendative, aperti al confronto con l’opposizione nelle sedi parlamentari”. L’ipotesi di un relatore, appunto, presuppone l’ipotesi di un unico emendamento blindato da votare in aula.
Ecco nel dettaglio gli interventi annunciati:
TAGLI AGLI ENTI – Le risorse recuperate per “diminuire le sofferenze per gli enti locali”, viene spiegato da fonti di maggioranza, sarebbero reperite da una rimodulazione dei vantaggi fiscali ed un intervento sulle pensioni. In ogni caso, per i piccoli comuni è prevista la “sostituzione dell’articolo della manovra con un nuovo testo che preveda l’obbligo dello svolgimento in forma di unione di tutte le funzioni fondamentali a partire dall’anno 2013″. Quindi niente accorpamento dei Comuni, pur restando immutato l’accorpamento delle funzioni.
CONTRIBUTO DI SOLIDARIETA’ – “Sostituzione del contributo di solidarietà con nuove misure fiscali finalizzate a eliminare l’abuso di intestazioni e interposizioni patrimoniali elusive nonché riduzione delle misure di vantaggio fiscale alle società cooperative”. Il contributo resta però per i membri del Parlamento. La supertassa sarà rimpiazzata con nuove misure fiscali finalizzate a eliminare l’evasione sui patrimoni. E poi riducendo i vantaggi fiscali alle società cooperative
PENSIONI – Calcolo delle pensioni soltanto in base agli “effettivi anni di lavoro”. E’ quanto stabilito nel corso della riunione di maggioranza ad Arcore. Il calcolo per il raggiungimento degli anni di anzianità, viene spiegato da fonti di maggioranza, non dovrebbe più tener conto degli anni di servizi militare prestato e degli anni universitari. “Verranno scorporati”, mantenendo immutato l’attuale regime previdenziale. Gli anni in questione, però, verranno computati per il calcolo della pensione..
A questo punto la domanda è: dove li prendono i soldi per varare la manovra a saldi invariati come imposto dalla BCE? Sembra una manovra fatta ad-hoc per riempire i giornali con la demagogia del non intervento sulle imposte e raccattare il consenso perduto, per poi modificarla in Parlamento magari scaricando la responsabilità dell'emendamento dell'ultimo minuto su qualche deputato semi sconosciuto alla caccia del suo minuto di celebrità!
E se proclamassimo uno sciopero fiscale?
Siamo assuefatti! Ormai da troppo tempo, avvezzi ai quotidiani scandali politici tanto da non avere più nemmeno la forza per indignarci, per urlare la nostra rabbia, per vomitare il dissenso, il disgusto contro questi faccendieri corrotti dall'ingordigia di potere, satrapi tiranni resi inumani dalla avidità per la pecunia e la orgiastica soddisfazione della propria sfrenata libido. Assistiamo indefessi alla mortificazione dei nostri diritti, della nostra libertà, all'oltraggio sistematico dei principi costituzionali fondanti la nostra democrazia. C'è di più. Purtroppo. Le direttive di partito, i dibattiti e le contrapposizioni ideologiche, le correnti di indirizzo politico delle attività istituzionali sono state sostituite, negli ultimi anni, non da sofisticate ricerche di tipo filologico, bensì dalla volgarità e dal turpiloquio da "malfamato bar della degradata periferia delle nostre metropoli". Ancora. Le sedi istituzionali del governo, le residenze del Presidente del Consiglio, ridotte a postriboli di dubbia moralità e il nostro Paese, il popolo italiano, l'amata Repubblica esposta al pubblico ludibrio, alla ilarità ed allo scherno del mondo intero. Il tutto condito da clientelismi, faccendieri, malaffare, corruzioni, concussioni, "P2, P3, P4 P-ennesime", case ristrutturate e comprate all'insaputa del proprietario, parlamentari ex magistrati ricettatori, sistemi convenzionali di arricchimento personali, insomma.
Scudo fiscale: sbagliare è umano...perseverare è diabolico!
Mentre in Italia sembra definitivamente tramontata l'ipotesi di tassare chi ha "scudato" capitali e si rincorrono per essere subito smentite le voci che vorrebbero nella manovra un nuovo scudo fiscale, altri paesi annunciano piani di rientro di capitali detenuti in paradisi fiscali con la prospettiva di ottime entrate.
E' il caso degli USA della Gran Bretagna e della Germania che con accordi internazionali mirati stabiliscono però regole ed aliquote ben più severe di quelle previste nel 2009 dal ministro Tremonti.
Allora offrimmo agli evasori la possibilità di far rientrare i capitali illegalmente detenuti all'estero, pagando una multa del 5%, aliquota salita al 6-7% con la riapertura dei termini.
Lo scudo ha permesso di far rientrare in Italia 97 miliardi di euro.
Decisamente più onerosa la richiesta di Londra verso chi tra il 2003 ed il 2010 ha deciso di portare i propri soldi in Lichtenstein. La tassa prevista è infatti pari al 25% dei capitali esportati.
Da questo accordo gli inglesi mirano a recuperare in 4 anni circa 9 miliardi di sterline.
Seguendo l'onda il governo britannico ha esteso l'accordo che dovrebbe entrare in vigore nel 2013, anche alla vicina Svizzera.
Tale accordo è la fotocopia di quello già in essere tra Svizzera e Germania e prevede che i cittadini britannici non residenti in Svizzera ma che detengono posizioni bancarie nella confederazione elvetica saranno chiamati, per regolarizzare la propria posizione, ad un pagamento di un contributo una tantum ed una imposta sulle plusvalenze realizzate oltre manica.
In particolare l'aliquota sarà del 27% per i redditi da capitale, del 40% per i dividendi, del 48% sugli interessi percepiti. Le banche non saranno obbligate a svelare l'identità dei clienti. La Svizzera verserà un acconto di 500 milioni di franchi, che verranno restituiti man mano che i capitali verranno regolarizzati.
In cambio Berna ottiene condizioni di favore per le attività dei propri gruppi bancari operanti nel Regno Unito.
Chi replicherà lo scudo del 2009 è invece Washington.
A marzo si è aperta una nuova fase che si concluderà a fine agosto e che prevede multe più salate. I contribuenti americani che detengono illegalmente capitali all'estero pagheranno una multa del 25%. Per le cifre inferiori ai 75,000 dollari l'aliquota scende al 12,5%.
Non solo, i contribuenti saranno costretti a pagare anche gli interessi sulle tasse evase nel periodo contributivo 2003-2010.
Visto che siamo sempre Esterofili, non potremmo esserlo anche per combattere sul serio l'evasione fiscale?
Ma se il primo evasore siede a Palazzo Chigi (64 aziende off-shore riconducibili al Cavaliere) e addirittura il ministro dell'economia evade la tassazione sulle locazioni pagando l'affitto in nero, sembra pretestuoso ed utopistico pensare di risolvere le problematiche contingenti con provvedimenti ispirati dalla razionalità.
Hedge Funds: speculazione ed insider trading
Incredibilmente gli spregiudicati investitori degli hedge funds, i fondi speculativi, detti anche fondi hedge, sono stati i primi che frettolosamente hanno disinvestito vendendo le proprie quote partecipative durante la crisi finanziaria che ha colpito il mondo industrializzato globalizzato negli ultimi anni, lasciando le maggiori perdite nelle mani dei piccoli azionisti dei fondi comuni di investimento.
Un recente studio ha rivelato che i detentori di significative quote di fondi speculativi, ai primi segnali di scarso rendimento dei titoli azionari in loro possesso hanno rapidamente venduto cercando di limitare le perdite.
Il sell off, ossia la vendita di titoli o di altri beni di investimento durante un periodo di ribasso delle quotazioni, per evitare perdite ancora maggiori è una situazione in cui si vende tutto indiscriminatamente, prodotti buoni e cattivi e in particolar modo si va a penalizzare tutto quello che era maggiormente salito negli ultimi mesi. Lo studio ha evidenziato come in concomitanza con la crisi borsistica mondiale le vendite totali degli hedge funds sono state ben tre volte superiori al totale delle vendite dei fondi comuni di investimento. Come conseguenza si è così registrato un ulteriore calo dei rendimenti dei fondi comuni rispetto a quelli speculativi con un deprezzamento maggiore dei titoli azionari in possesso dei piccoli risparmiatori i quali, loro malgrado, hanno dovuto sopportare le maggiori perdite inflitte dalla crisi finanziaria speculativa degli ultimi mesi.
"Il peso della caduta dei mercati finanziari mondiali è stato in gran parte sopportato dai piccoli risparmiatori", conferma Itzhak Ben-David, co-autore dello studio e assistente professore di finanza presso la Ohio State University Fisher College of Business. "Infatti, ai primi segnali di instabilità sui mercati, i possessori degli hedge funds hanno rapidamente ceduto quote in modo da limitare le perdite".
Ben-David ha condotto lo studio con Francesco Franzoni degli svizzeri Finance Institute e l'Università di Lugano e Rabih Moussawi di The Wharton School presso l'Università della Pennsylvania. I risultati, che saranno inclusi in un prossimo documento sulla rivista The Review of Financial Studies, sono stati una sorpresa per gli stessi ricercatori.
"Quando pensiamo a comportamenti speculativi, pensiamo sempre agli Hedge Funds, che sono sempre pronti ad approfittare di una crisi economica o di un crack finanziario per fini speculativi. Sono gli investitori sofisticati che trovano sempre il modo per trarre profitto da una situazione anomala, complicata, critica", dice Ben-David.
"Sorprendentemente abbiamo invece scoperto che hanno adottato il comportamento esattamente opposto durante questa crisi, uscendo frettolosamente dal mercato azionario e contribuendo, se ce ne fosse stata la necessità, a destabilizzare ulteriormente il mercato già sofferente causa le criticità rilevanti dei mutui sub-prime.
In particolare lo studio è stato effettuato incrociando i dati del totale delle azioni della Securities and Exchange Commission ed un elenco di quote di hedge funds a disposizione dei ricercatori.
Incrociando i dati con le performance e la struttura dei pacchetti azionari degli hedge funds e dei fondi comuni sono stati raccolte informazioni davvero importanti.
Focalizzando l'attenzione principalmente sull'ultimo trimestre del 2007, l'inizio della crisi, fino al primo trimestre del 2009, si è notato come i fondi speculativi hanno iniziato la vendita dei titoli ai primi segnali di crisi, riducendo già dall'ultimo trimestre del 2007 le partecipazioni in quote azionarie del 10%, arrivando nell'ultimo trimestre del 2008 a ridurre tali partecipazioni di ben il 30%.
Secondo lo studio, le vendite dei fondi comuni, nello stesso arco temporale, risulta essere inferiore di ben 10 volte.
La rapida uscita dal mercato ha aiutato certamente gli investitori dei fondi speculativi a limitare le perdite rispetto a quelle subite dai piccoli risparmiatori. Si rileva infatti che mentre per gli hedge funds il calo dei rendimenti trimestrali di quel periodo risulta essere - 1,82%, per i fondi comuni, nello stesso periodo la perdita si è assesta sul -7,22%. Ci si chiede come mai i possessori di fondi speculativi siano così rapidamente usciti dal mercato, senza nemmeno provare ad utilizzare a proprio vantaggio l'instabilità finanziaria in atto.
L'insider trading, a questo punto, è più di un sospetto. Ben-David invece trova ragioni diverse: la prima è che i grandi fondi speculativi hanno finanziatori esterni, ossia prendono in prestito il denaro per grandi operazioni finanziarie. Ai primi segnali di rendimenti in calo, il ritiro dei finanziatori coincide automaticamente con il ritiro degli hedge funds. Gli investitori sono davvero nervosi e alle prime notizie negative vanno in fibrillazione.
Altra ragione sono le restrizioni imposte alla raccolta monetaria al di fuori del fondo. "Queste restrizioni sono per gli investitori un incentivo a correre più velocemente verso l'uscita dal mercato, se stanno perdendo soldi. Abbiamo scoperto che gli hedge funds che avevano queste restrizioni sono quelli che hanno disinvestito più rapidamente", ha detto Ben-David.
Il fatto che gli investitori istituzionali siano pesantemente coinvolti in hedge fund ha avuto un ruolo importante", continua sempre il ricercatore. "Gli investitori istituzionali stanno gestendo i soldi degli altri - non i loro. Ciò significa che essi devono essere molto attenti nelle scelte degli investimenti. Non necessariamente vengono ricompensati se riescono in una speculazione vantaggiosa imprevista, ma potrebbero essere licenziati in caso di perdite ingenti".Nel complesso, i risultati suggeriscono che, almeno durante questo periodo, gli hedge fund hanno gestito la crisi in modo molto diverso rispetto al previsto. A parte le giustificazioni di facciata l'ombra dell' insider trading si affaccia con prepotenza: per la loro posizione e le pressioni esercite sul mercato o per la l' attività professionale svolta, gli amministratori dei fondi speculativi sono sicuramente venuti in possesso di informazioni riservate non di pubblico dominio (indicate come "informazioni privilegiate"). Simili informazioni, per la loro natura, gli hanno permesso di posizionarsi illecitamente su un piano privilegiato rispetto ad altri investitori del medesimo mercato, in modo che a pagare fossero, come al solito, quelli senza responsabilità, senza informazioni e senza difese. Che ci lascino almeno il diritto di sapere...
CGIL, è il modello socio-economico ad essere in crisi, lo sciopero é inutile!
La Cgil ha lanciato un nuovo sciopero generale per il 6 settembre, a 4 mesi esatti dall’ultimo, convocato il 6 maggio scorso. L’obiettivo è opporsi ad una manovra giudicata, si legge nel comunicato, non solo iniqua e inefficace, ma anche antisindacale.
Il decreto prevede infatti, tra le misure in materia di occupazione, la possibilità di definire le condizioni di lavoro in base ad accordi aziendali, quindi a prescindere sia dai contratti collettivi nazionali, che dalle leggi in materia di licenziamento.
Una norma che lascia i lavoratori soli e sprovvisti di alternative di fronte ad una negoziazione in cui il datore di lavoro ha tutti gli strumenti per puntare al ribasso.
Come per chi è già escluso dalla tutela offerta dai contratti collettivi e dall’art. 18, lo scenario che si prospetta è ancora una volta quello del ricatto.
Di fronte a questa situazione i compromessi cui stiamo assistendo – a cominciare dall’accordo unitario del 29 giugno scorso – finiscono per tenere in piedi l’impianto del diritto del lavoro, mentre lo si svuota di efficacia dall’interno.
D’altra parte non basta neanche la proposta, tanto in voga, del contratto unico, che per definizione lascia ai margini tutti quelli che nella figura del lavoratore standard non rientrano.
Non entra chi lavora su più committenze, su singoli incarichi, chi per esigenze familiari è intermittente. Decine di figure professionali nella galassia dei servizi.
Allora bene lo sciopero, ma è un intero modello di organizzazione del lavoro, e di welfare, a dover essere ripensato, e con esso anche il sindacato deve riformulare il senso della propria presenza e le proprie forme di lotta.
Questo significherebbe per i sindacati, per la Cgil, alzare la posta in gioco, passare da una posizione puramente reattiva alla posizione di soggetto politico che detta un’agenda e che si riappropria del significato dei diritti che difende, annacquati e delegittimati nel discorso corrente come residui di un passato arcaico.
Sono attuali purché li si pensi nel presente e li si pensi per tutti.
E il punto non è la difesa del posto fisso in sé. Il punto è difendere dall’arbitrio, non lasciare soli nella contrattazione o addirittura azzerare la contrattazione, non renderci tutti costretti a dire sempre, a qualsiasi condizione, sì.
Agenzie di rating: il mondo ostaggio della menzogna
Corrotte da un peccato originale, il conflitto di interesse, intrinseco alla loro stessa struttura, chiamate “a far felice il cliente” nonostante sia quest’ultimo a chiedere loro un giudizio “obiettivo”. Insomma, inaffidabili nella migliore delle ipotesi, distruttive nel peggiore dei casi. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, nel panorama delle critiche sul ruolo e il potere di queste agenzie. Se non fosse, particolare non da poco, che ad esprimersi in questo modo è uno che le agenzie le conosce fin troppo bene. Harrington, 11 anni di esperienza nelle file di Moody’s, è un insider di primissimo livello. Nel corso della sua carriera, l’ex vice presidente ha maturato una notevole esperienza nel campo dei prodotti strutturati. Titoli derivati conosciuti con l’espressione generica di asset backed securities, dove le Securities in questione sono i famigerati Cdo’s (Collateralized debt obligations) o simili, e gli asset da cui sono “backed”, i collaterali insomma, non sono altro che i crediti a rischio insolvenza. Ovvero i mutui subprime, gli agenti patogeni primari della più colossale crisi finanziaria del dopoguerra.
Una crisi, spiega Harrington in un report pubblico sottoposto alla Sec lo scorso 8 agosto, ma emerso solo nei giorni scorsi grazie all’attenta analisi di Business Insider, che la stessa Moody’s aveva previsto in anticipo pur affermando, in via ufficiale, l’esatto contrario. Non stupisce, dunque, che la stessa agenzia avesse preteso, come spiega il suo numero due, di essere pagata in anticipo dai suoi clienti (gli emittenti dei prodotti derivati che la stessa era chiamata a valutare) a prescindere dai risultati finanziari, ovvero dall’eventuale fallimento dei prodotti stessi e, conseguentemente, della credibilità stessa dei giudizi.
La vicenda, in realtà, appare piuttosto semplice. Le agenzie, spiega Harrington, devono dare giudizi obiettivi ma anche, ed è questo il punto, fare contenti i propri clienti. Per questo le valutazioni tendono spesso ad essere eccessivamente positive. Non mancano i dissidi, certo, peccato però che gli analisti scettici tendano ad essere bollati come “molesti” (troublesome) subendo di conseguenza vari tipi di pressione. Un esempio su tutti: quando un analista sollevava dubbi sulla bontà di un prodotto, i suoi superiori si affrettavano a comunicarlo direttamente al cliente facendo sì che quest’ultimo si mobilitasse per cercare di far cambiare idea al loro collega. Nei mesi del boom immobiliare si intensificarono le assunzioni di analisti giovani e inesperti, persone del tutto inadatte a giudicare con precisione il valore reale dei titoli ma al tempo stesso candidati ideali per un processo di auto convincimento collettivo che avrebbe permesso all’agenzia di raggiungere il suo obiettivo: la soddisfazione del cliente. Una verità scomoda che la stessa Moody’s continua a negare. Secondo Harrington, alcuni dipendenti dell’agenzia avrebbero mentito pubblicamente una volta chiamati a testimoniare di fronte alla commissione governativa che indagava sul collasso finanziario e sulle responsabilità degli analisti.
La credibilità dei giudizi sui titoli “tossici” espresso da un’altra agenzia del settore, Standard & Poor’s, è finita in questi giorni sotto inchiesta su iniziativa della Sec, la stessa commissione di controllo impegnata oggi a studiare nuove regole per disciplinare l’attività degli arbitri del mercato. Ma proprio queste nuove regole – rapporti sui controlli interni, protezione dai conflitti di interesse (il come non è specificato), pubblicazione di relazioni dettagliate sui metodi di analisi utilizzati – non sembrerebbero secondo Harrington minimamente efficaci. E’ la struttura stessa delle agenzie, in altre parole, a rendere queste ultime del tutto inaffidabili. E fintantoché saranno gli emittenti dei titoli a stipendiare i loro giudici, difficilmente questi ultimi potranno essere giudicati attendibili. Un ragionamento talmente ovvio da suggerire una riforma autenticamente radicale piuttosto che una semplice stretta sulla regolamentazione. Resta da capire, ora, se la Sec avrà davvero il coraggio e soprattutto la forza per andare a fondo in questa direzione.
di Matteo Cavallito
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agosto
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