Felice
Roberto Pizzuti
Quella che stiamo
vivendo da 3-4 anni è una fase di transizione storica caratterizzata dalla
grande crisi globale esplosa nel 2007-2008, tuttora in corso e di cui ancora
non si vede quale sarà la via d’uscita. Come in altre grandi crisi, essa
riguarda non solo le modalità assunte dal sistema economico-finanziario - che
nel trascorso trentennio è stato caratterizzato dall'affermarsi del
neoliberismo e della globalizzazione -, ma anche i valori culturali, sociali e
politici che in questo periodo si sono affermati e il senso comune formato
dalla diffusione di quei valori nell'opinione pubblica.
L’Unione europea e
la Sinistra sarebbero, potenzialmente, in una condizione ideale per dare un
contributo positivo al superamento della crisi, ma – almeno finora – ciò non
sta accadendo; anzi, per certi versi, si sta verificando il contrario.
Nonostante la
crisi appaia, per il modo in cui si manifesta, di natura essenzialmente
finanziaria, le sue cause strutturali vanno individuate in contraddizioni reali
che continuano ad essere sottovalutate o negate dalle visioni economiche e
politiche ancora dominanti. Anche nell’opinione pubblica si avvertono segnali
di smarrimento e insofferenza, ma - a conferma del complessivo disorientamento
dei tempi - non s’intravedono le capacità di una loro canalizzazione politica
in senso progressivo.
Tra i principali
motivi economici della crisi globale vanno schematicamente ricordati: il
peggioramento tendenziale della distribuzione del reddito iniziato negli anni
’80 nei paesi più sviluppati e il conseguente squilibrio tra la sostenuta
dinamica delle capacità d’offerta e l’inadeguatezza della domanda, determinata
anche dal contenimento della spesa pubblica (in particolare di quella sociale);
la finanziarizzazione dell'economia, espressione significativa
dell’autonomizzazione della logica del profitto rispetto all’economia reale e
ai rapporti sociali e, allo stesso tempo, strumento per sopperire in modo
effimero (le “bolle”) alla carenza strutturale della domanda; l’accresciuta
asimmetria nei rapporti tra mercati e istituzioni, con l’accentuata riduzione
del ruolo pubblico di regolamentazione dei mercati e di compensazione della sua
intrinseca instabilità; il ruolo esercitato dalle visioni economiche dominanti
che, proprio mentre l’instabilità era accresciuta dalla globalizzazione e dalla
finanziarizzazione, teorizzavano che potesse essere neutralizzata dal libero
dispiegarsi della razionalità dei mercati.
Queste e altre
motivazioni della crisi globale non erano e non sono presenti con particolare
intensità nell'area dei paesi dell'euro; tuttavia, da molti mesi, gli effetti
più eclatanti della crisi si stanno avvertendo proprio in Europa; ciò dipende
dal fatto che le difficoltà economiche globali si stanno intrecciando
negativamente con le contraddizioni del processo unitario europeo.
Una contraddizione
di fondo risiede nel fatto che la costruzione dell'UE – che pure implica una
rilevante dimensione politico-istituzionale – negli ultimi tre decenni sia
stata guidata dalla visione neoliberista che considera le istituzioni un
ostacolo al funzionamento dei mercati; così, a livello comunitario, si è
puntato essenzialmente sul mercato e sulla moneta, trascurando il necessario
ruolo complementare delle istituzioni e delle politiche. Ciò ha esaltato gli effetti
della crisi globale nel nostro continente. Si aggiunga che, mentre nei paesi
anglosassoni - dove pure il neoliberismo ha le sue radici più profonde - non
sono mai mancate applicazioni pragmatiche di quella visione (si pensi alla FED
che, diversamente dalla BCE, ha tra le sue finalità anche la crescita), negli
ultimi anni il cosiddetto modello di economia sociale di mercato, sempre
richiamato in Europa, ha lasciato spazio ad applicazioni anche molto
convenzionali della pura logica di mercato.
Un importante
limite del progetto europeo è che continua ad essere condizionato da
idiosincrasie nazionali alcune delle quali sono incompatibili anche logicamente
con un progetto unitario.
Particolarmente
inconsistente è la pretesa di estendere il modello economico tedesco, guidato
dalle esportazioni e dal surplus commerciale, ad un intero continente che
diventerebbe la maggiore economia mondiale.
Se si procedesse
in tal senso, i tanto criticati squilibri economici internazionali già
esistenti (delle bilance commerciali, dei flussi finanziari, delle riserve
valutarie, delle situazioni debitorie, ecc.) che tanto faticosamente vengono
affrontati nei vari consessi internazionali, sarebbero aggravati e così pure le
cause della crisi globale.
Continuare a
guardare all'Europa come il risultato dell'estensione su base continentale di
esperienze nazionali, a parte la miopia politica, è un tipico esempio di
fallacia di composizione.
Le perduranti
preoccupazioni per l'inflazione nel bel mezzo della più grave crisi di stagnazione-recessione
degli ultimi ottant’anni e l’approccio semplicisticamente "rigoroso"
alla politica di bilancio continuano a favorire il prevalere degli orientamenti
controproducenti che hanno guidato il processo di (non) unificazione europea.
Il timore dell’inflazione
risente ancora di traumatiche esperienze nazionali del passato - come la grande
svalorizzazione del marco nella Repubblica di Weimar che, tuttavia, a distanza
di quasi un secolo, dovrebbe essere rielaborata anche in rapporto alle nuove e
del tutto diverse condizioni e problematiche economiche e politiche.
La più vicina
esperienza inflazionistica dei recenti anni ’70 fu invece il risultato della
lotta economica e politica per la redistribuzione del reddito e della ricchezza
– sia tra i paesi sviluppati e i paesi produttori di materie prime sia, nelle
economie più avanzate, tra imprese e lavoratori – che erano fortemente
cresciuti dalla fine della guerra. L’aumento dei prezzi da parte dei produttori
dei paesi sviluppati - che contribuì anche al contestuale calo della crescita e
dell’occupazione (stagflazione) - servì ad invertire il trend dei miglioramenti
equitativi e dei progressi politico-sociali che aveva accompagnato e sorretto
la grande crescita economica e civile della “età dell’oro” dei paesi
occidentali.
Diversamente da
quelle passate esperienze inflazionistiche, oggi - dopo l’ultimo trentennio
neoliberista sfociato nell’attuale crisi globale - non c’è né una carenza della
capacità d’offerta rispetto alla domanda come nel primo dopoguerra (anzi è il
contrario) né c’è un’elevata crescita di ricchezza da redistribuire (per quanto
esistano potenzialità produttive inespresse). Oggi dobbiamo invece fare i conti
con gli effetti, negativi anche per la crescita economica, delle sperequazioni
reddituali, dei limiti dei mercati lasciati a se stessi e di un’instabilità
tanto strutturalmente accresciuta (dalla globalizzazione, dalla
finanziarizzazione, dalla precarietà del lavoro e dei redditi) quanto
ideologicamente negata (in base alla pretesa razionalità attribuita ai mercati)
e conseguentemente accentuata dal contenimento del welfare state.
Dal punto di vista
analitico, il perdurante “rigorismo” nelle politiche di bilancio richiesto
dall’UE tradisce anche una certa confusione tra la Macroeconomia (il cui
approccio analitico non è ancora ben digerito dalla visione liberista) e la
Ragioneria. Quest’ultima si applica positivamente ai bilanci delle singole
imprese. La prima, invece ha regole, strumenti d’analisi e finalità operative
diverse, poiché gli equilibri macroeconomici non dipendono solo dalla semplice
giustapposizione dell’azione dei tanti singoli operatori di mercato, ma anche
dalla loro interazione (il tutto non è semplicemente la somma delle parti); in
più, gli equilibri macroeconomici dipendono dal rapporto dei mercati con le
istituzioni – cioè con enti che hanno motivazioni e modalità d’intervento anche
molto diverse da quelle degli operatori privati. Gli equilibri e le dinamiche
macroeconomiche non possono dunque essere valutati, ad esempio, trasponendo al
settore pubblico il ruolo che il pareggio o l’attivo di bilancio hanno per una
singola azienda; quando ciò avviene si verifica un’altra manifestazione di
fallacia di composizione, sospinta, in questo caso, da una ideologica, ingenua
infatuazione per regole aziendali indebitamente estese all’intero sistema
economico nel quale le aziende, lo stesso mercato e le relative regole,
costituiscono solo una parte della realtà economica.
Se si passa
all’analisi dei fatti e si guarda alle recenti vicende europee, più che il caso
greco è emblematico quello irlandese che ha mostrato come i problemi per l'Euro
e per l'UE non derivano tanto dall'indisciplina dei bilanci pubblici (nel 2007
il debito pubblico irlandese era solo del 12%) ma dal settore privato, in
particolare da quello finanziario. Altrettanto si può dire per la Spagna il cui
debito pubblico nel 2007 era solo del 27%, ma ciò non ha impedito che oggi si
trovi particolarmente colpita dalla crisi e più di altri paesi esposta alla
speculazione internazionale. Del resto, anche il debito pubblico negli Usa è
cresciuto vertiginosamente negli ultimi anni fino a superare quello medio
europeo che, a sua volta, è molto meno della metà di quello giapponese che è
elevatissimo da tempo; eppure, come si accennava prima, è in Europa che la
crisi assume i caratteri più destabilizzanti.
D’altra parte, il
forte peggioramento dei bilanci pubblici intervenuto negli ultimi anni è il
risultato dei massicci interventi di ripianamento dei debiti privati che dopo
il mancato salvataggio della Lehman-Brothers furono chiesti a viva voce anche
da molti protagonisti e sostenitori del mercato che oggi indicano
nell’indebitamento degli stati il primo ostacolo da rimuovere per consentire ai
mercati di riportarci fuori dalla crisi.
Dunque è ancora
più paradossale che con il nuovo Patto di Stabilità europeo si chieda maggior
rigore ai bilanci pubblici senza che vincoli e sanzioni più efficaci siano
posti ai comportamenti degli operatori privati e dei mercati, specialmente di
quelli finanziari.
Questo approccio
asimmetrico continuerà ad esercitare effetti negativi: da un lato, riducendo
ulteriormente gli stimoli alla crescita dell’economia reale e all’occupazione;
d’alto lato, non attenuando i motivi d’instabilità presenti nei mercati internazionali,
specialmente in quelli finanziari dove la creazione dei “derivati” è
immediatamente ripartita (già nella primavera del 2009 erano tornati a valori
superiori al 2007) dando luogo ad una nuova immensa “bolla” (stimata pari ad
oltre 40 volte il Pil USA) che assorbe la creazione di liquidità delle banche
centrali a discapito delle necessità di finanziamento del settore reale e
alimenta la speculazione.
Per fare un altro
esempio della logica ideologicamente erronea e controproducente che continua a dominare
nell'Unione, dare aiuti all'Irlanda senza che in quel paese vengano equiparate
le aliquote d'imposta sui profitti al livello comunitario significa chiedere
agli altri paesi europei di sostenere la concorrenza sleale irlandese fondata
sul dumping fiscale a favore dei profitti realizzati in quel paese da
imprenditori venuti anche da fuori Europa.
In realtà, quella
che viene definita come la crisi dell'Euro sta evidenziando la ben nota
difficoltà di creare un unico sistema economico che, tuttavia, di unitario ha
solo la moneta e la politica monetaria e non anche le dinamiche strutturali e
la politica di bilancio.
La creazione della
moneta unica, e la conseguente abolizione degli aggiustamenti valutari,
richiedeva che fosse accompagnata dalla convergenza delle economie; ma in
questa direzione si è fatto veramente poco. Anzi, l'affrettato allargamento
dell'UE a sistemi economici molto disomogenei, realizzato senza disporre degli
strumenti per favorirne la convergenza, ha reso il progetto europeo più difficile.
La crisi globale
ha accentuato queste difficoltà. L'impossibilità di aggiustare le perduranti e
crescenti differenze strutturali tra i sistemi economici nazionali aderenti
all’UE allargata mediante variazioni dei tassi di cambio spinge – nella visione
di politica economica ancora dominante - a che l'aggiustamento avvenga
riducendo i prezzi e/o i redditi dei paesi con disavanzi con l'estero.
Ma questo tipo di
aggiustamento è più "doloroso" in termini di minore crescita e
occupazione, generando spinte deflazionistiche che si estendono anche ai paesi
in minore difficoltà.
La deflazione
amplifica i debiti, a cominciare da quelli dei privati e, in particolare, delle
banche; per evitare che queste ultime falliscano, si ricorre all’intervento dei
governi; ma in tal modo si appesantiscono i bilanci pubblici di cui poi si
chiede il risanamento da ottenersi mediante gli immancabili sacrifici sociali.
Anche per
sostenere la moneta unica, occorrono politiche capaci di favorire
effettivamente la convergenza reale delle economie nazionali. A tal fine è
necessario prendere atto che la sola concorrenza all’interno del mercato unico
non ha favorito (non poteva farlo) la convergenza delle economie nazionali, ma
l’ha resa più difficile, ed è proprio l’accresciuta disomogeneità interna che
ha accentuato gli effetti della crisi globale sull’Unione europea.
Occorre dunque
potenziare l’azione di coordinamento e integrazione. Il passaggio da sistemi
nazionali concorrenti ad un’economia di dimensioni continentali - che
diventerebbe la principale al mondo – produrrebbe due risultati rilevanti: in
primo luogo, allenterebbe i vincoli esteri alle politiche espansive e di
riequilibrio interne che potrebbero essere praticate riducendo i rischi di
aumentare oltremodo le importazioni e squilibrare la bilancia dei pagamenti; in
secondo luogo, favorirebbe significativamente la capacità di contrasto alle
manovre speculative sui mercati internazionali che attualmente rappresentano un
serio pericolo per la costruzione europea.
Le politiche di
rilancio della crescita dovrebbero essere finanziate anche tramite l’emissione
di eurobond ad opera di un’agenzia comunitaria dotata di patrimonio adeguato;
essa, più in generale, dovrebbe progressivamente assumere compiti funzionali
alla definizione di una politica comune anche in campo fiscale. In questa
prospettiva – che proprio la crisi globale non consente sia ulteriormente
elusa, pena l’inevitabile venir meno del progetto europeo già nel breve periodo
– anche la gestione dei debiti pubblici nazionali sarebbe favorita. L’impiego
anche a tal fine degli eurobond e la dichiarata disponibilità ad interventi sul
mercato secondario dei titoli pubblici nazionali – misure che in entrambi i
casi dovrebbero essere coerenti ad un disegno di politica economica comunitaria
concordato e rispettato - eliminerebbe quella situazione di ingiustificata
fragilità dell’Unione Europea determinata da comportamenti più autolesionisti
che rigorosi.
La creazione di
eurobond con queste funzioni– come da ultimo è stata sostenuta anche da Prodi –
viene curiosamente criticata dal nuovo “partito” di coloro che si preoccupano
che i tedeschi possano rimetterci. Ancora una volta c’è di mezzo una strana
interpretazione del “rigore” come viene richiesto nelle timide e tardive misure
comunitarie adottate per difendere l’Unione Europea dalla crisi e dai movimenti
speculativi che la caratterizzano. A tale riguardo può essere utile notare che
la partecipazione al finanziamento degli interventi dell’UE a favore dei paesi
in difficoltà avviene secondo quote corrispondenti al PIL e alla partecipazione
al capitale della BCE, che sono: il 28% per la Germania, il 21% per la Francia
e il 17,9% per l’Italia.
Il prestito ai
paesi in difficoltà avviene ad un medesimo tasso corrisposto dal paese debitore
a tutti i paesi creditori; tuttavia, questi ultimi, per erogare il prestito,
raccolgono liquidità sui mercati a tassi diversi, che sono più alti per
l’Italia e meno per la Germania (il famoso spread che sta oscillando intorno al
3% ed è arrivato anche vicino al 4%). Dunque la Germania ha un profitto
superiore dall’operazione.
D’altra parte, il
sistema bancario tedesco ha un’esposizione nei paesi in difficoltà ben maggiore
di quella delle banche italiane (570 miliardi di euro contro 80 all’inizio
dell’estate).
Dunque, quando
vengono decisi interventi a sostegno dei bilanci pubblici dei paesi in
difficoltà, lo si fa perché essi possano assicurare la solvibilità dei loro
operatori privati (soprattutto banche) che sono debitori verso il sistema
bancario estero (soprattutto tedesco). In definitiva, il bilancio pubblico
tedesco trae particolare profitto dal soccorso finanziario a favore dei paesi
in difficoltà come la Grecia: sia perché guadagna maggiormente sul prestito che
concede sia perché evita di dover soccorrere le proprie banche che sono le
destinatarie d’ultima istanza del soccorso operato dall’Unione.
Ma questi sono
“particolari” poiché la creazione dell’euro – alla cui sopravvivenza è normale
che la Germania sia chiamata a contribuire in ragione del suo peso economico –
è stata e continua ad essere una scelta particolarmente vantaggiosa per il
modello economico tedesco fondato sulle esportazioni, le quali sono state
evidentemente favorite dalla creazione di un mercato e di una moneta unitari.
Naturalmente, vale sempre il principio che, non potendo l’intera economia
europea avere un elevato e persistente surplus commerciale – specialmente se
c’è già la Cina in questa condizione, con tutti gli squilibri che provoca per
l’economia mondiale -, se nell’area dell’euro un paese ha una bilancia dei
pagamenti in attivo, è ben comprensibile che qualcun altro l’abbia in passivo.
D’altra parte, uno squilibrio commerciale elevato e persistente tra diverse
aree economiche implica problemi e responsabilità per entrambe le parti.
La crescita
dell’intera Europa - e della Germania - e il contributo che ne può derivare per
il superamento della crisi globale passano dunque necessariamente per un
particolare aumento della crescita nei territori meno sviluppati. Se la
Germania continua a non capirlo - o a capirlo con il sistematico ritardo
connesso alle scadenze elettorali interne – e a imporre misure “rigorose” che
impediscono la ripresa dei paesi europei maggiormente in crisi, taglierà il
ramo su cui essa stessa è seduta.
Il cosiddetto
“Patto per l’euro” stilato in primavera a Bruxelles, pur accordando rilevanza
alla convergenza delle economie reali, si limita invece alle consuete
indicazioni di ricercare la competitività su basi nazionali. A tal fine in esso
si fa riferimento esclusivamente alle condizioni dell’offerta: ad un aumento
della flessibilità del lavoro e alla riduzione dei costi produttivi, tra cui
vengono evidenziati quelli per le prestazioni sociali, sanitarie e
pensionistiche, (continuando a sottovalutare il ruolo che esse possono avere
sia per migliorare i presupposti sociali della capacità d’offerta sia le non
meno rilevanti condizioni della domanda).
Ma per uscire
dalla crisi, non se ne possono ignorare le motivazioni strutturali inizialmente
ricordate. Tuttavia, a tre anni dall’esplosione della crisi e ancora dopo il
suo recente aggravarsi, l’ostacolo maggiore al suo superamento rimane la
diffusa resistenza a riconoscerne la profondità e la natura reale (non
puramente finanziaria) delle cause.
Questa riluttanza
è alimentata dal perdurante prevalere di interessi materiali, di teorie economico-politiche
e di un senso comune nell'opinione pubblica ancora collegati alle modalità del
processo economico che hanno caratterizzato gli ultimi tre decenni. Come diceva
Keynes, il problema non sta tanto nell'affermazione delle nuove idee quanto nel
liberarsi dalle vecchie.
Per uscire in modo
positivo dalla crisi è necessario rilanciare la crescita, ma tenendo conto dei
suoi aspetti qualitativi ed ecologici, ovvero: di cosa si consuma e cosa si
produce, considerando le forti differenze territoriali quantitative e
qualitative esistenti tra i bisogni insoddisfatti e le disponibilità di
risorse; con quali tecniche, con quale organizzazione del processo produttivo e
con quali modalità d’impiego e partecipazione alle scelte dei lavoratori; come
si distribuiscono e si impiegano i frutti del processo produttivo.
Per rilanciare la
crescita e la sua qualità occorre sostenere non solo le condizioni d’offerta,
ma anche quelle della domanda mediante un miglioramento della distribuzione del
reddito. E’ indispensabile che il mercato sia integrato e regolato
dall’intervento pubblico e, in particolare, dalle politiche sociali necessarie
a contrastarne l’instabilità accresciuta dalla globalizzazione.
A ben vedere si
tratta di un'agenda particolarmente congeniale alla Sinistra alla quale si
presenta un'occasione storica per rientrare in gioco da protagonista.
Tuttavia, in
Europa, l’efficacia di queste politiche sarebbe molto accresciuta se attuate su
scala continentale anziché locale, se si sostituissero le competizioni nazionali
(o nazionalistiche) con un approccio unitario fondato sulla presa d’atto che il
modello d’accumulazione degli ultimi trent’anni va sostituito.
Storicamente,
anche nel nostro paese, la sinistra ha avuto con il processo d'unificazione
europea rapporti ambivalenti. Accanto a convinti sostenitori c'è sempre stata
una corrente almeno dubbiosa che negli ultimi anni ha trovato elementi di
comprensibile sconforto nelle modalità neoliberiste che hanno caratterizzato la
costruzione dell'Unione.
Tuttavia, senza
negare le difficoltà come quelle sopra ricordate, si deve prendere atto che, in
aggiunta alle sue motivazioni storiche, oggi il processo d'unificazione europeo
è il terreno che meglio si presta all'affermazione di politiche e scelte capaci
di farci uscire dalla crisi in modo positivo.
Naturalmente in
Europa possono essere decise anche politiche non condivisibili, contraddittorie
e controproducenti - come in molti casi è già avvenuto e come continua ad
avvenire. Ma non v'è dubbio che i margini per politiche di progresso perseguite
autonomamente a livello nazionale sono sempre più ristretti, mentre i rischi di
risorgenti conflitti nazionali sono sempre presenti.
La Sinistra deve
dunque operare con convinzione per contribuire a riavviare su basi più solide il
processo d'unificazione europea. In questa direzione occorre incrementare i
contatti con tutte le forze progressiste europee per concordare terreni e linee
di lavoro comuni capaci di recuperare anche le specificità positive della
nostra storia continentale come, ad esempio, la creazione e lo sviluppo dei
sistemi di welfare state.
Purtroppo, come
sappiamo, la crisi in atto riguarda anche la politica e coinvolge non da meno
la Sinistra che, nonostante i problemi da affrontare in questa fase storica le
siano particolarmente congeniali, fa fatica a rapportarsi alla loro complessità
con un approccio coerente a se stessa e alle necessità che si pongono. Si
tratta di un disorientamento lungamente protratto, cui molto hanno contribuito
i fallimenti del comunismo reale. In alcuni casi quelle esperienze storiche e
il loro divario con le aspettative hanno avuto una metabolizzazione lenta,
parziale, difettosa e ambigua che ha ostacolato la comprensione dell’evolversi
dei tempi. In altri casi, l’ansia di modernità si è risolta in sbrigativi
cortocircuiti intellettuali che, per contrappasso, hanno generato e continuano
ad indurre ingiustificati cedimenti - se non adesioni - a visioni,
interpretazioni e ricette convenzionali, frutto della riedizioni di idee
obsolete di cui la crisi attuale conferma drammaticamente l’inadeguatezza. A
questi esiti ha contribuito anche quella manifestazione di autoreferenzialità
della politica e dei politici che pregiudica la possibilità di fondare le
scelte su una adeguata organizzazione dell’attività collettiva di valutazione e
finalizzazione delle conoscenze. Un conseguente effetto che si diffonde
nell’opinione corrente, anche nella sua componente più progressista, è il
conservatorismo per presunta mancanza di alternative cioè il dubbio devastante
che non sia possibile praticare altro che valori socio-culturali e la ratio delle
politiche affermatesi negli ultimi decenni, ma che – al più – sia possibile
sostituire la classe dirigente che l’ha applicata senza il necessario “rigore”
(economico, etico, professionale, estetico, ecc).
Naturalmente, per
un’applicazione più “rigorosa” delle vecchie idee non c’è bisogno della
Sinistra. E anche per quanto riguarda l’Europa, si tratterebbe d’insistere e
approfondire il modello applicato negli ultimi decenni che, tuttavia, come è
evidente anche a qualche protagonista dei mercati più illuminato, per motivi
che in parte sono stati ricordati in precedenza, sta conducendo alla
dissoluzione del suo progetto d’unificazione e al suo declino; un esito,
peraltro, che non contribuirebbe positivamente nemmeno alle sorti della crisi
globale.
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