E' indubbio che siamo arrivati a questo punto della crisi dell'euro - e più in generale dell'intero progetto europeo - per l'invasamento dogmatico liberista che negli ultimi vent’anni ha guidato le élite al potere nei paesi europei. La crisi finanziaria esplosa globalmente nel 2008 con il crollo della Lehman Brothers e l'intervento di salvataggio pubblico da 18 mila miliardi di dollari (tra prestiti, garanzie e fondi a perdere) in meno di un anno aveva fatto pensare che le politiche liberiste fossero al capolinea. Ma così non è stato. La principale risposta che vediamo alla crisi oggi in Europa è costituita da politiche di austerità che inevitabilmente produrranno recessione nel breve e deflazione nel medio e lungo termine, accoppiate con un ancora più massiccio corporate welfare a vantaggio del sistema bancario, troppo grande per fallire e quindi capace di tenere in scacco interi stati.
La “madre di tutte le crisi” ha mostrato le ragioni della società civile europea e delle campagne condotte per decenni. Finalmente il problema della finanza e delle banche è finito sulle prime pagine di giornali e sulle agende dei decisori politici. Si pensava che si potesse costruire una nuova narrativa al fine di aggregare consenso politico per un'azione trasformativa e non solo di riforma dell'esistente. Ma subito si è visto che la strada era molto più complessa, in molti frangenti sono mancate le truppe e spesso si è cercato di limitare i danni, come in passato ai tempi degli aggiustamenti strutturali imposti ai paesi più poveri. Oggi, di fronte ai tagli e all'ennesimo salvataggio delle banche, la rabbia monta e lentamente si riaffaccia anche la protesta nelle strade, dalla Spagna, alla Grecia, agli Usa. Un segnale di discontinuità da non sottovalutare, fermo restando la sfida di come organizzare un blocco sociale per promuovere un autentico cambiamento in relazione agli attuali rapporti di forza.
Quali sono le opportunità e le ulteriori difficoltà dei prossimi mesi? In Europa, l'azione di pressione su governi e attori sociali è riuscita ad ottenere dalla dogmatica Commissione europea una proposta di direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie (Financial Transaction Tax, Ftt). Senza dubbio una vittoria politica, dovuta al forte sostegno di gran parte dei sindacati europei e di varie constituencies, forse in taluni casi più interessate al gettito di una siffatta tassa che alla drastica riduzione dei mercati dei capitali e finanziari in Europa. Quanto una Ftt sarà trasformativa davvero nello svuotare tali mercati e aprire uno spazio politico pubblico per riappropriarsi dell'enorme liquidità che volteggia nel mondo in maniera predatoria dipenderà da come sarà applicata la tassa. Per i “bricoleur” speculatori della City di Londra, non mancheranno possibilità di arbitraggio e crepe da sfruttare, e la vera sfida sarà su quanto e come si tasseranno brutalmente i prodotti derivati, che sono oggi il vero motore del sistema bancario ombra.
Al riguardo va ricordato che la battaglia per chiudere, o quanto meno vincolare maggiormente, i paradisi fiscali, dopo un impeto significativo intorno al G20 di Londra dell'aprile del 2009, ha prodotto magri risultati. Per l'Ocse non esistono più paesi sulla black list – una posizione vergognosa. La ricchezza delle persone fisiche accumulata nel solo 2009 nei paradisi fiscali si stima che sia aumentata di circa mille miliardi. Qualche progresso si è mosso invece sul fronte delle imprese multinazionali, dove alcuni soggetti, anche su richiesta di qualche governo, si sono impegnati a pubblicare i propri bilanci paese per paese, svelando così le loro attività nei paradisi fiscali. Si vedrà.
La critica alla speculazione finanziaria su commodity fondamentali, come il cibo, ha forse prodotto la possibilità di porre limiti di posizione ai mercati dei derivati, collegati a maggiore trasparenza. Qualcosa che può sembrare positivo per arginare il problema, ma che potrebbe anche legittimare gran parte della speculazione esistente e la supremazia dei mercati finanziari come intermediari unici per condividere i rischi collegati ai processi di produzione reali. In breve, i contadini potrebbero essere forzati a coprire i rischi comprando anch'essi derivati retail o con altre forme di assicurazione privata, invece che con politiche pubbliche agricole di sostegno al prezzo, come avveniva in passato.
A questo si aggiunga che la società civile sta guardando con sempre maggiore preoccupazione alle nuove frontiere della finanziarizzazione, ossia la necessità per le élite globali di creare nuove commodity dal nulla – se si vuole virtuali, come “il carbonio” - per poter innestare su queste un commercio finanziario di titoli. Servono nuove classi di asset finanziari, visto che sui mercati tradizionali le vecchie non funzionano più. Da qui l'intenzione di creare un commercio finanziario di habitat, specie, ecosistemi, così come già avviene per i permessi di inquinamento sul carbonio. Il tutto con impatti enormi, soprattutto sul controllo della terra e sulle comunità locali. Un approccio di mercato spinto alla gestione dei beni comuni, e in questo caso della natura stessa. In tal senso la nuova tendenza del G20 a promuovere mega-infrastrutture di integrazione regionale – e spesso finalizzate all'export di materie prime o energia – e a nuovi investimenti in agricoltura va letto proprio nella necessità di rendere le stesse infrastrutture un nuovo asset finanziario, anche grazie e nuove forme di partnership pubblico-private finanziarizzate sin dall'inizio.
Infine, sulla riforma del sistema bancario, le nuove regole di Basilea che saranno applicate in sette anni – chi lo sa quante altre crisi bancarie avremo nel frattempo – mettono qualche vincolo in più agli istituti di credito, ma rispondono principalmente all'esigenza di ridurre i futuri salvataggi statali più che di democratizzare e rendere più funzionale all'economia reale il sistema bancario. Il paradosso è che con Basilea si potrebbe non risolvere affatto nella realtà il problema del “too big too fail”; gli ancora più grandi conglomerati bancari che emergono dalla crisi avranno più potere di ricatto nei confronti dei regolatori e dei supervisori. La creazione di nuove agenzie europee intergovernative di supervisione su banche, assicurazioni e prodotti finanziari, seppur positiva in linea di principio, rischia di essere l'ennesimo meccanismo europeo controllato da pochi paesi forti e dalle élite che li governano – cosicché tante parole produrrebbero poca azione reale, a vantaggio di chi vuole lo status quo.
In tutti questi processi rispetto al passato emerge un livello di conflittualità senza precedenti, anche all'interno delle élite economiche e finanziarie. Emblematico il caso tedesco, dove il capitalismo manifatturiero da export (“renano”) si scontra con l'arrivismo speculativo dei nuovi ricchi della finanza. Analogamente multinazionali che temono di perdere profitti ed essere in ritardo nel finanziarizzarsi (sul modello Enron o General Electric), spingono per una revisione dei mercati fisici e finanziari delle commodity – addirittura alcune multinazionali del petrolio chiedono di rivedere in senso restrittivo il mercato dei futures sul greggio. Allo stesso tempo il capitalismo finanziario sta aggredendo già da ora la cosiddetta green economy. Si pensi agli enormi investimenti speculativi che fondi di private equity e hedge funds stanno muovendo nelle tecnologie verdi e in progetti su larga scala soprattutto nei paesi emergenti.
Questi conflitti, destinati ad aumentare se si aggiunge la nuova geopolitica tra vecchio G8 e paesi emergenti, offrono opportunità per spingere un'agenda progressista tra le crepe del liberismo, ma è pur vero che le proposte mosse fino ad oggi hanno ancora un carattere di riforma del sistema finanziario, e non di sua trasformazione. Tutto ciò perché manca un consenso più esplicito e una nuova egemonia culturale che affermi che il genio della finanza non è la soluzione alla crisi e va quindi richiuso nella lampada. Su questa strada la società civile può e deve ancora fare molto, e in tal senso è cruciale sostenere moti di protesta nelle piazze contro le banche e la finanza, così come esporre i nomi delle persone legate alle lobby e a chi si arricchisce nella crisi. In tal senso va ricordato che dei 19 gruppi tecnici che “consigliano” la Commissione Europea sulla riforma del sistema finanziario, ben 14 vedono la partecipazione solamente del settore privato. Non c'è quindi da stupirsi se le proposte di legge avanzate a Bruxelles sono poco trasformative.
Ridurre l'indipendenza della Banca centrale europea portandola a una autonomia vigilata sotto stretta supervisione politica, rivedere il suo mandato ben oltre il controllo dell'inflazione sul modello della Fed americana, introdurre finalmente uno stretto coordinamento europeo delle politiche economiche e fiscali, rielaborando alcuni aspetti dei parametri di Maastricht, introdurre l'emissione di eurobond per finanziare politiche espansive, nonché una tassa sulle transazioni finanziarie internazionali per ridurre la speculazione e pagare politiche espansive. Queste sono alcune delle soluzioni avanzate fino ad oggi da forze progressiste per far fronte alla crisi. Tutte idee che sono valide e vanno sostenute, ma potrebbero non bastare nel medio e lungo termine.
Come sottolineato da Rossana Rossanda nel suo appello, è cruciale tornare a controllare i movimenti di capitale. Al riguardo vi sono state finalmente alcune aperture da parte dello stesso Fondo monetario internazionale e alcuni governi (sebbene non europei) hanno mostrato un interesse a riparlarne. Si ricordi che Cina, India e Brasile continuano ad applicare alcune misure di controllo dei capitali e queste rimangono la loro ancora di salvezza in un momento in cui gran parte della mole di liquidità immessa dalla Fed in questi mesi tende a finire nei mercati emergenti per investimenti a breve. L'apertura dello spazio politico sulla Ftt deve essere assecondata, spingendo il dibattito sul controllo dei capitali, che non vuol dire necessariamente protezionismo finanziario, ma semmai “deglobalizzazione” selettiva da alcuni flussi speculativi e ad alto rischio.
Allo stesso tempo il default greco è uno spartiacque, simbolico ma anche reale. Perciò è urgente e utile domandarsi come possa avvenire a vantaggio del lavoro e non del capitale, per aprire nuovo spazio politico per una più profonda trasformazione.
Un default dei paesi debitori dovrebbe essere mosso in tempo giusto da essi stessi e non dai creditori (vedi invece il sistema attuale con i meccanismi proposti di aiuto alla Grecia); bisogna fare un audit del debito pubblico e partecipato nei paesi debitori per decidere a chi e quanto si ripaga, bisogna bloccare il non senso delle politiche di austerità e capire come fronteggiare il periodo di mancanza di accesso ai mercati di capitale internazionali una volta che si dichiara l'insolvibilità. Per fare ciò serve necessariamente un cambiamento profondo del sistema bancario interno dei paesi, perché un default può generare subito una crisi anche delle banche nazionali, forti detentrici del debito degli stati. Per sostenere l'accesso al credito e nuove politiche industriali sarà inevitabile che alcune banche siano nazionalizzate. L'alternativa del default guidato dai creditori per salvare le banche – con nuovi impegni ex-ante per ben 3 mila miliardi di dollari – con l'imposizione di politiche di austerità produrrebbe recessione e povertà nel breve termine e deflazione nel medio e lungo termine, un'opzione drammatica per la periferia europea. Vincere sul default greco vorrebbe dire riuscire a ricostruire una narrativa diversa. Oggi è centrale che la sinistra porti avanti questa ipotesi, aprendo crepe nel dibattito in Germania e cercando forti alleanze con i sindacati, soprattutto nei paesi della periferia europea. Ad oggi, è triste dirlo, per le strade di Berlino non si è vista solidarietà con il popolo greco, o quello portoghese o irlandese. Serve un urgente nuovo internazionalismo intra-europeo e i nuovi movimenti che marceranno il 15 ottobre sono un ottimo segnale in tal senso.
Allo stesso tempo bisogna aggredire l'altra faccia della medaglia. Come ha ammesso lo stesso George Soros – peccato che però con la crisi abbia guadagnato in un anno 3 miliardi di dollari... – siamo al punto che in Europa le principali banche vanno commissariate per sostenere la crescita e le politiche industriali. Si apre quindi uno spazio politico per poter tornare a parlare di ridefinizione della finanza pubblica, e della necessità di creare nuove banche pubbliche di investimento – se si vuole “di sviluppo” - ben oltre le parche proposte tremontiane sulla Banca del Sud e giù di lì. La vera sfida è quella di trasformare i veicoli esistenti – in primis in Italia il gigante che è Cassa Depositi e Prestiti – per riportarli nell'alveo di politiche di interesse pubblico e permettere che questi soggetti assorbano con una politica attiva anche la grande liquidità privata oggi presente sui mercati. In breve un soggetto pubblico che decida che investimenti fare, secondo logiche non di mercato.
Infine, e come corollario del punto precedente, la questione della riforma dei sistemi pensionistici è un terreno di battaglia formidabile, non solo per difendere i diritti acquisiti, ma per ridefinire la sfera della finanza pubblica. Il rischio è che si cerchi di allentare sempre più i vincoli con cui i grandi fondi pensione, anche pubblici, possano investire nel lungo termine in operazione a rischio maggiore; in breve rendere i fondi pensioni sempre più dipendenti dai mercati di capitale. Diversamente bisognerebbe ragionare su come incanalare quell'enorme liquidità nuovamente in meccanismi pubblici per investimenti di interesse pubblico. Questo svuoterebbe inevitabilmente di liquidità i mercati di capitale nel lungo termine. E anche su questo tema l'alleanza con le forze del lavoro e i grossi fondi pensione pubblici è nevralgica.
Oltre le nuove opportunità da cogliere e su cui organizzare nuove battaglie e costruire una nuova narrativa, restano le sfide strutturali ancora non affrontate. Due principalmente: la trasformazione del sistema bancario esistente e gli squilibri macroeconomici regionali.
Su entrambe le questioni il problema rimane l'attuale mancanza di forza politica per rimettere in discussione le politiche liberiste europee, che continuano a dominare questi due ambiti centrali per ricostruire un progetto economico e sociale europeo di solidarietà.
I grandi gruppi bancari oggi tengono in scacco i governi. L'unica soluzione è la drastica riduzione della taglia dei gruppi bancari per eliminare il problema del “too big too fail”. Al riguardo è surreale il dibattito in Germania, dove la cancelliera Angela Merkel si adopera per salvare la Grecia – ma in realtà a vantaggio delle banche tedesche - contro l'opposizione popolare anti-greca. In breve è necessario andare ben oltre le misure approntate con il nuovo accordo di Basilea e chiedersi apertamente di quale nuovo sistema bancario abbia bisogno una nuova politica industriale europea. Non si tratta soltanto di aumentare i poteri di supervisione, ma di trasformare gli istituti bancari. In tal senso andrebbero riscoperte alcune delle esperienze di credito cooperativo, che in alcuni paesi europei hanno avuto anche una dimensione importante, ma che in taluni casi sono finite anch'esse nella maglie della finanziarizzazione. Nuove alleanze vanno create tra società civile, questi attori finanziari e settori produttivi in difficoltà ed alla ricerca di credito per produrre, quanto meno per avere un nuovo fronte capace di agire e cambiare l'agenda politica.
Sugli squilibri macroeconomici interni, la questione è ancora più problematica, dal momento che è necessario rimettere in discussione il modello tedesco di “global competitor” centrato sull'export, che con il suo surplus commerciale e finanziario scaricato sulla periferia genera enormi squilibri. Oggi la Germania non ha alcuna voglia di rivedere la strada intrapresa e la Commissione europea continua ad abbracciare il mantra liberista del commercio mondiale, acuendo il problema. La nuova politica comune sugli investimenti recentemente approvata porrà inevitabilmente grosse questioni politiche e sociali quando a breve si inizieranno a negoziare accordi bilaterali di liberalizzazione sugli investimenti con i paesi che contano, Cina in primis. Questi negoziati possono diventare battaglie politiche su cui costruire nuove alleanze, prima che il populismo di destra le crei con una narrativa xenofoba, oggi vincente anche nella stessa Germania. Ma ciò implica che il modello tedesco vada criticato più duramente anche a sinistra e che si abbandoni l'ossessione per l'export, che ad oggi rimane la principale opzione avanzata per rilanciare la crescita.
Antonio Tricarico
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