Quella che è stata vista come la spaccatura dell'Unione Europea, potrebbe in realtà essere l'unico vero risultato del vertice di Bruxelles dello scorso 8 e 9 dicembre: sancire una integrazione a due velocità tra paesi all'interno e all'esterno della zona euro. Ma siamo ancora lontani da una vera unione fiscale nell'area, perché manca un percorso definito che dia legittimità democratica alle istituzioni che dovrebbero guidarla. Deludente anche la Bce, in cui prevale la rigidità della Bundesbank.
Il vertice dell’eurozona si è concluso accogliendo nella sostanza la posizione franco tedesca, concordata nell’incontro di lunedì scorso tra la cancelliera Merkel e il presidente Sarkozy.
L’ACCORDO PER PUNTI
I punti salienti dell’accordo raggiunto nella notte sono i seguenti.
a. Sanzioni semi-automatiche per i paesi che violano il tetto del 3 per cento al rapporto disavanzo/Pil. L’applicazione delle sanzioni potrà essere fermata solo da un voto contrario del consiglio UE a maggioranza qualificata.
b. La Corte di giustizia europea dovrà verificare che le norme sul pareggio di bilancio (il deficit strutturale non deve eccedere lo 0,5 per cento del Pil), inserite nelle costituzioni nazionali, siano coerenti con i Trattati europei.
c. L’accordo intergovernativo (da siglare entro marzo prossimo) non deve necessariamente coinvolgere tutti i 27 paesi dell’Unione. In effetti, coinvolgerà solo i 17 paesi della zona euro più altri sei. Resta aperto alla adesione di altri, ma la Gran Bretagna si è già chiamata fuori.
d. L’entrata in funzione del nuovo fondo Esm verrà anticipata da metà 2013 a metà 2012. La partecipazione dei creditori privati alla ristrutturazione dei debiti sovrani non sarà più una condizione necessaria per avere gli aiuti dell’Esm: si seguirà la pratica dell’Fmi di valutare caso per caso la necessità di coinvolgere il settore privato. Il caso della Grecia dovrebbe rimanere eccezionale. Le decisioni dell’Esm verranno prese con una maggioranza qualificata dell’85 per cento, anziché all’unanimità.
e. L’Fmi potrebbe ricevere risorse addizionali per 200 miliardi di euro dagli stati europei.
MANCA IL PROGETTO POLITICO
Nei giorni scorsi, la cancelliera Merkel aveva parlato della necessità di fare un salto di qualità, verso una “unione fiscale” tra i paesi della zona euro. Ha ragione: è l’unica soluzione. Ma se questa è la sua visione di una unione fiscale, non ci siamo. La posizione tedesca è fatta solo di vincoli alla politica fiscale e di sanzioni per i paesi devianti, oltretutto applicate da organismi tecnici privi di ogni legittimità democratica. È la solita ricetta, che non ha funzionato negli ultimi dieci anni di unione monetaria e che non funzionerà nei prossimi, ammesso che ve ne siano.
Il progresso verso una unione fiscale dovrebbe invece comprendere meccanismi istituzionali nuovi, tali da consentire un trasferimento di alcune decisioni dalle autorità nazionali a quelle comunitarie: Parlamento, Consiglio, Commissione. Proprio la Commissione dovrebbe avere una maggiore legittimazione democratica, prevedendo che almeno il suo presidente sia eletto dai cittadini. Il bilancio comunitario dovrebbe essere potenziato, aumentandone le risorse proprie e prevedendo che alcune materie siano di sua competenza. Non è necessario far tutto subito, forse in questo momento sarebbe anche controproducente, visto il livello di consenso popolare verso le istituzioni europee dopo due anni di mala gestione della crisi. Ma il percorso dovrebbe essere definito, con alcuni passi significativi immediati e un chiaro punto di arrivo. Solo così si potrebbe progredire verso una federazione, correggendo il vizio di fondo della unione monetaria europea: la condivisione della politica monetaria senza alcuna condivisione della politica fiscale.
L’unica novità rilevante dell’approccio franco-tedesco è la previsione che si possa procedere con un accordo tra i soli paesi della zona euro, lasciando agli altri la possibilità di aderirvi, se vorranno, in un secondo momento. È una buona idea, che è stata subito applicata. La crisi ha ormai ampliato la distanza tra paesi euro e non; e le stesse istituzioni europee hanno già cominciato un processo di specializzazione al proprio interno, con la formazione di organismi specifici per la gestione dell’euro (Eurosummit). È inevitabile; condividere la moneta non è la stessa cosa che formare un mercato unico; e non si può governare la prima con le stesse istituzioni della seconda. Tanto più, se come è necessario in futuro, il processo di centralizzazione della politica fiscale venisse accompagnato da un aumento della legittimità democratica delle decisioni, alla lunga l’unica soluzione accettabile. Ma come può un Parlamento europeo, nel quale siedono anche i Tories inglesi, che non vogliono né mai vorranno aderire all’euro, decidere sulla politica pensionistica, la politica tributaria, il mercato del lavoro e le altre materie dei paesi dell’euro? Una “Unione a due velocità” è purtroppo iscritta nelle cose; e, peggio ancora, per evitare veti inglesi, si procede con accordi intergovernativi (tipo “Shengen”) piuttosto che sfruttando le potenzialità degli strumenti già previsti nei Trattati europei, come le “cooperazione rafforzate”. L’accordo di ieri sancisce probabilmente la fine dell’Unione Europea come l’abbiamo conosciuta. Ma il problema è che a causa della rigidità tedesca e della mancanza di progetto dei politici europei potrebbe non tanto sancire la nascita di una federazione politica più coesa attorno alla moneta unica, ma solo il proseguimento degli inutili patti intergovernativi sugli equilibri di bilancio in salsa teutonica che abbiamo visto nell’ultimo decennio. Anche l’applicazione semi-automatica delle sanzioni per i paesi con disavanzi eccessivi non è una novità: era già prevista nel Patto di stabilità riformato nel corso di quest’anno (il cosiddetto “Patto euro plus”).
IL CAPITOLO BCE
Una visione così minimalista della integrazione fiscale nella zona euro, come quella emersa nell’accordo notturno, si poteva giustificare solo come espediente tattico, per consentire alla Bce di rafforzare il suo programma di acquisto di titoli pubblici sul mercato secondario. Si poteva sperare che, pur non affidando un mandato esplicito alla Banca centrale, si sarebbero create le condizioni perché il Securities Market Program facesse un salto di qualità, senza urtare troppo la sensibilità degli elettori tedeschi e della Bundesbank. Una estensione di quel programma, capace di dare un segnale più chiaro al mercato sui livelli massimi di spread tollerati, non sarebbe in contrasto con il mandato e lo statuto della Bce. L’uniformità dei tassi d’interesse tra i paesi della zona euro è una condizione perché la politica monetaria unica si trasmetta correttamente in tutta l’area, e questo rientra nei compiti della Bce. Se la Banca centrale annunciasse un limite esplicito allo spread tra i titoli sovrani dell’area, oltre il quale la Banca interviene sui mercati, le aspettative degli operatori avrebbero un’ancora e la dimensione degli interventi necessari sarebbe minore di quanto molti temono. Peraltro, la Bce ha già speso 200 miliardi in interventi che hanno avuto scarso successo, proprio perché i suoi annunci sono andati nella direzione sbagliata: interventi limitati e temporanei, senza un target preciso.
Purtroppo le dichiarazioni di Mario Draghi, dopo la riunione del board di ieri, hanno chiuso la porta a questa speranza. La rigidità della Bundesbank continua evidentemente a prevalere nelle decisioni della Bce: lo testimonia il fatto che anche la riduzione dei tassi d’interesse non è stata approvata all’unanimità. La Bce ha ampliato i suoi mezzi per evitare una crisi di liquidità del sistema bancario: finanziamenti a tre anni, allargamento delle attività utilizzabili come collaterale, riduzione del coefficiente di riserva obbligatoria. Tuttavia, così la Bce cura solo i sintomi del malessere, sostituendosi di fatto al mercato monetario anziché farlo funzionare davvero. I problemi delle banche derivano dal rischio sovrano che hanno in portafoglio, e su questo la Bce non sembra disposta a fare nulla.
Concludiamo con una nota positiva: l’abolizione della cosiddetta clausola di bail-in, ovvero la partecipazione deicreditori privati come condizione per avere l’assistenza del fondo di stabilità europeo. La clausola era fortemente destabilizzante, perché creava negli investitori l’aspettativa che avrebbero dovuto subire perdite rilevanti in caso di intervento del fondo (50 per cento per la Grecia). Si creava così l’effetto di minare la fiducia degli investitori e indurli a vendere i titoli di debito dei paesi a rischio di insolvenza: esattamente l’opposto di quello desiderato.
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