intervista a Zygmunt Bauman di Susanna Marietti
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La crisi dei mercati finanziari è stata una crisi globale e nazionale. Una crisi che ha messo in discussione il sistema capitalistico nel suo complesso e le abitudini più radicate dei singoli cittadini. Una finanza e un’economia slegate dalla produttività e dal mondo del lavoro, che tuttavia hanno avuto l’ambizione di guidare i processi politici e di arrivare perfino a valutare i lavori delle amministrazioni statali e locali. Ne abbiamo parlato con Zygmunt Bauman sulle colonne de Linkontro.info.


Professor Bauman, lei afferma che la sola autentica soluzione alla situazione attuale consista nell’andare alle radici del problema. Cosa intende dire con ciò? Si riferisce a un cambiamento culturale globale o a misure politiche specifiche?
Il recente panico del credito offre una straordinaria dimostrazione di cosa in politica dovrebbe significare, ma spesso non significa, andare alle radici. Il credit crunch  è stato una conseguenza del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del loro incredibile successo, pienamente prevedibile sebbene per molti inaspettato: successo nell’aver trasformato un’enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una razza di debitori. Debitori per sempre, dal momento che la condizione di essere in debito è stata resa auto-perpetuante, e altri debiti vengono indicati come l’unica soluzione realistica ai debiti pregressi. Incorrere in tale condizione debitoria è recentemente diventato facile come non mai nella storia umana, mentre uscirvi non è mai stato così difficile. Chiunque può diventare un debitore, e milioni di altri che non potrebbero e non dovrebbero essere attirati dall’indebitamento sono già stati allettati e sedotti da esso. E così come la scomparsa di gente scalza significa problemi per le industrie di scarpe, allo stesso modo la scomparsa di gente senza debiti significa disastro per l’industria del prestito. La famosa previsione di Rosa Luxemburg si è avverata ancora una volta: comportandosi come un serpente che si morde la coda, il capitalismo si è di nuovo pericolosamente avvicinato al suicidio involontario con il portare a esaurimento le nuove terre vergini da sfruttare.
E come si è reagito a tutto questo?
La reazione fino ad ora - di effetto, e perfino rivoluzionaria, come può sembrare una volta trattata nei titoli dei media e nel parlare sloganistico dei politici - è stata: ne vogliamo ancora. Un tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente meritevoli di credito, così che il business di prestare e prendere in prestito, di indebitarsi e rimanere indebitato, potesse tornare alla normalità. Il welfare state per i ricchi - che diversamente dal suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori uso - è stato riportato negli showroom dalle stanze di servizio dove erano stati temporaneamente relegati i suoi uffici per evitare spiacevoli paragoni.
Il welfare state per i ricchi di cui parlava prima. Chi è stato aiutato da queste misure?
Esse sono state introdotte per salvare gli squali, non i pesciolini di cui questi si nutrono. E, una volta rassicurati e rinforzati, gli squali sono le ultime creature che chiedono limiti alla caccia nelle acque globali… Per dirla con la colorita espressione del Financial Times del 20/21 settembre, “i mercati globali hanno ruggito la loro approvazione” della linea d’azione americana, che nella sobria valutazione di questo giornale significa “permettere alle banche di tamponare le proprie perdite, ricapitalizzare e rimettersi in affari”. Non per cambiare i modelli operativi delle banche, bensì per metterle in condizione, una volta di più, di seguirli, sperando ora di poter essere sottratte alle conseguenze della loro avidità, con la quale sarebbe stato auspicabile (e immaginosamente esigibile) che avessero fatto i conti basandosi sui propri (insufficienti, come trapela ora) mezzi e secondo il proprio (sbagliato, come trapela ora) giudizio.
Un sistema sbagliato nella sua interezza, che produce all’uomo sofferenza?
Quel che è allegramente e scioccamente dimenticato è che le modalità dell’umana sofferenza sono determinate da come gli uomini vivono. Le radici della sofferenza lamentata oggi, come le radici di ogni male sociale, affondano in profondità nel nostro modo di vivere, grazie alla nostra abitudine - attentamente coltivata e ora assai radicata - di ricorrere al credito al consumo ogni qualvolta c’è un problema da affrontare o una difficoltà da superare. La vita a credito è attraente quanto forse nessuna altra droga, e di certo dà ancor più assuefazione di molti tranquillanti in vendita. Ma decenni di copiosa fornitura di una qualche droga non possono che condurre a un trauma nel momento in cui essa si interrompe. Ci viene oggi proposta una scappatoia apparentemente facile dallo shock che affligge sia il tossicodipendente che lo spacciatore di droga: riprendere la fornitura di droga, possibilmente in modo regolare.
Torniamo dunque alla domanda iniziale: la scappatoia non basta, bisogna andare alla radice del problema?
Andare alla radice del problema – il quale problema, senza che ci fosse la volontà dei principali attori politici, è stato oggi fatto uscire dal segreto e portato alla pubblica attenzione - è l’unica soluzione che abbia qualche possibilità di essere adeguata all’enormità di esso e di sopravvivere all’intensa, per quanto relativamente breve, agonia dell’astinenza. Ma non può trattarsi di una soluzione immediata. Ci vuole più pensiero, più azione e più tempo che per un febbrile tentativo di ricapitalizzare le banche che prestano denaro e promuovono debiti, rendendo i loro debitori di nuovo (per quanto?) meritevoli di credito e rinnovando, invece di prosciugare, quelle sorgenti dalle quali, se le cose ‘vanno bene’, germinano contemporaneamente i favolosi profitti delle banche e la miseria dei loro debitori. Non c’è impresa politica radicale che consista in una soluzione immediata. Misure che si pretendono immediatamente efficaci sono generalmente finalizzate ad attenuare, di solito in via temporanea, una crisi, a ripulire dalle ‘anormalità’ e a ristabilire le ‘normalità’. Le soluzioni immediate, per quanto straordinarie e audaci, sono generalmente conservatrici, mirando a ristabilire lo status quo. Per questo esse quasi mai arrivano nei pressi delle radici del problema, né gli impediscono di ritornare a oltranza. Piuttosto, conservano il problema per un futuro non troppo lontano.
La società occidentale sta diventando sempre più povera. Qual è il ruolo avuto dal credito nel nasconderlo alla gente e farle mettere la testa sotto la sabbia?
Non so se, come dice lei, la società occidentale stia diventando più povera, ma so che, come ancora dice lei, la facilità del vivere a credito impedisce una seria riflessione su quanto siamo ricchi o quanto siamo poveri. Facilità del vivere a credito significa che soddisfare la generale possibilità, l’attrazione, l’incoraggiamento, l’inclinazione a vivere al di là dei propri mezzi diventa tanto più accessibile. Data questa facilità, è difficile - se non impossibile - calcolare i nostri veri mezzi. I debiti che ci rendono più poveri possono venir scambiati facilmente per arricchimento, fintanto che possiamo permetterci gli interessi sui prestiti. Possiamo così commettere la pazzia e l’errore di vivere al di là dei nostri mezzi convinti che stiamo andando per il meglio e che stiamo facendo gli interessi nostri e della nostra famiglia. Possiamo commettere questa pazzia e questo errore senza sensi di colpa, senza rammarichi, senza scrupoli.
Fino a quando…
Fino a quando il momento della verità non piomba su di noi sotto forma di disastro finanziario: fatture e affitti non pagati, ufficiali giudiziari che ci bussano alla porta, banche che si riprendono le nostre case e via dicendo. Come il Faust di Goethe, vogliamo che la bellezza dell’istante duri per sempre. I crediti delle banche ci cullano nella meravigliosa convinzione che così sarà. E ci svegliamo dall’illusione solo quando siamo ormai sulla soglia dell’inferno…

(14 aprile 2011)