Sembra che il consistente aumento del debito pubblico, seguito alla socializzazione delle perdite private prodotte dalla recente crisi, sia diventato negli ultimi tempi il principale problema di molti paesi occidentali (in particolare, dell’area Euro). Molti commentatori sostengono che per uscire dalla crisi sono necessarie politiche economiche di “austerità”. Altri, invece, che le politiche restrittive causeranno una grave recessione (e un peggioramento dei conti pubblici). Esistono, quindi, posizioni alternative rispetto agli interventi di politica economica da intraprendere per contrastare la crisi. Da una parte, infatti, la spiegazione dei fatti recenti come una “crisi finanziaria” (con “effetti reali”), dovuta al fallimento di aspetti specifici dei mercati finanziari, potrebbe suggerire una soluzione “tecnica” dei problemi emersi, per continuare a percorrere la strada neoliberista “una volta riparate alcune buche”; dall’altra parte, l’inquadramento degli attuali problemi come il risultato di una “crisi sistemica” dovuta a “cause reali” (con “effetti finanziari” che hanno prima posticipato e poi amplificato la crisi) dovrebbe invece condurre ad un cambiamento radicale volto alla costruzione di un nuovo modello di sviluppo.
A nostro modo di vedere, le cause della crisi sono “reali” e derivano dalla svolta politica “neoliberista” avvenuta a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento. Un ampio processo dideregolamentazione – dal mercato del lavoro alla globalizzazione dei processi produttivi, dalla finanza nazionale a quella internazionale – ha consentito un parziale recupero di profittabilità del sistema capitalistico, contrastando il declino post-bellico del tasso di profitto sfociato nella “stagflazione” degli anni ’70. A ciò è seguita una progressiva diminuzione della quota dei salari (soprattutto dei lavoratori low-skilled) sul reddito complessivo e un aumento delle disuguaglianze. I tagli al welfare state sono stati in parte compensati dall’“effetto di ricchezza” prodotto dalle bolle mobiliari ed immobiliari, mentre l’espansione del credito al consumo ha “risolto temporaneamente” il problema della carenza di domanda aggregata. Comunque, i profitti scaturiti dall’inversione dei rapporti di forza nel mercato del lavoro, sono stati reinvestiti solo in parte nell’economia reale dei paesi occidentali, mentre una quota crescente di produzioni è stata localizzata nei paesi low-cost(non a caso i tassi medi di crescita dei paesi avanzati dagli anni ’70 in poi sono stati inferiori rispetto ai decenni precedenti) e un’altra quota di profitti, sempre più rilevante, è andata a gonfiare il settore finanziario.
Gli stessi elementi alla base del modello neoliberista – deregolamentazione, finanziariazzazione, globalizzazione – hanno prodotto un crescendo di crisi, fino a quella più recente (e oltre), come risultato della crescita smisurata delle disuguaglianze, dell’instabilità finanziaria e degli squilibri commerciali tra paesi diversi. Nel frattempo, la Cina e gli altri paesi emergenti sono diventati sempre più rilevanti per gli equilibri globali, come conseguenza di un allargamento del “contenitore” dello sviluppo capitalistico avviato dagli stessi paesi avanzati (investimenti diretti esteri, multinazionali, etc.). Questo può far pensare ad uno spostamento del centro dell’accumulazione capitalistica verso sud-est, mentre l’Occidente sconta i problemi derivanti dagli eccessi della belle époque finanziaria degli ultimi anni e si avvia verso un relativo declino. In questa prospettiva, la “crisi finanziaria” è la manifestazione più evidente di un problema di fondo, “reale”, che riguarda il processo globale di accumulazione capitalistica.
A nostro avviso, le politiche di austerità che dovrebbero porre rimedio al dissesto delle finanze pubbliche, non solo non risolveranno questo problema (per quanto detto sopra) ma hanno soprattutto un altro obiettivo: quello di prolungare il crepuscolo del capitalismo di stampo neoliberista. Le politiche di austerità sono, cioè, la logica conseguenza delle crepe che si sono aperte nel processo neoliberista di accumulazione capitalistica e hanno l’obiettivo di posticiparne l’epilogo. Tanto per fare un esempio, il capitale finanziario ha interesse a speculare sui titoli pubblici dei paesi della periferia europea, ottenendo elevati rendimenti, mentre il problema della sostenibilità delle finanze pubbliche viene procrastinato di manovra in manovra, richiedendo sempre più sacrifici a larga parte della popolazione per salvare i paesi dal fallimento. Nel frattempo, un’ulteriore riduzione delle “rigidità” del mercato del lavoro dovrebbe assicurare una tenuta dei margini di profitto nei settori produttivi e lasciare libertà al capitale di indirizzarsi verso altri luoghi produttivi (ad esempio, i paesi emergenti) o, ancora, verso la finanza. In questo modo, la durata della fase critica si allunga ma i problemi di fondo restano irrisolti, fino alla crisi prossima ventura.
Da una parte, dato che l’obiettivo che ci si pone è di anticipare l’uscita dalla crisi (e di spostarne il carico sulle classi agiate), bisognerebbe puntare, secondo alcuni economisti, sul default dei paesi indebitati, per evitare pesanti sacrifici a larghi strati della popolazione che risultano esclusivamente in profitti per il capitale finanziario. Ecco, quindi, la bancarotta come contropotere finanziario nella proposta di Andrea Fumagalli e il default come ‘evento’ invece che come ‘processo’ nell’interpretazione di Guido Viale. Dall’altra parte, emergono alcune criticità di una tale strategia. Un default programmato presenta delle difficoltà tecniche e delle rilevanti conseguenze nazionali ed internazionali, come notato ad esempio da Vladimiro Giacché: il default dovrebbe essere “selettivo”, per evitare di colpire i risparmi di quella parte della popolazione alla quale si vorrebbero evitare i sacrifici richiesti dalla strategia di austerità; sembra però difficilmente percorribile la via di non ripagare i debiti legati ad uno stesso titolo se posseduti da alcuni soggetti (ad esempio, le istituzioni finanziarie) e ripagarli invece se posseduti da altri (ad esempio, lavoratori e pensionati); i mercati internazionali, per un certo periodo di tempo, eviterebbero di finanziare i paesi che decidono di procedere con un default; una conseguenza di tutto ciò (in Europa) potrebbe essere un’uscita dall’euro e una svalutazione (che in realtà potrebbe ulteriormente ridurre i salari, indirettamente, attraverso un aumento dei prezzi delle merci importate). Da una parte, poi, il ritorno alle monete nazionali renderebbe nuovamente disponibile ai singoli paesi lo strumento della politica monetaria per garantire il debito pubblico mediante l’intervento della propria banca centrale; dall’altra, però, bisogna considerare che la conversione del debito pubblico denominato in euro in una nuova moneta nazionale svalutata produrrebbe degli effetti simili al default, con una probabile ondata di fallimenti bancari. Ad ogni modo, nel caso dell’Italia, un’uscita dall’Euro (come conseguenza della bancarotta o del fallimento del progetto politico di integrazione europea), potrebbe non avere lo stesso effetto positivo sulle esportazioni nette che derivò dalla svalutazione del 1992, quando la competizione di prezzo dei paesi emergenti non aveva ancora raggiunto i livelli degli anni 2000 (ad esempio, dopo l’ingresso della Cina nel WTO a fine 2001). Una soluzione alternativa (a nostro avviso preferibile) consisterebbe in un aumento dell’imposizione sulle ricchezze che una parte minoritaria della popolazione ha accumulato negli ultimi decenni, per stabilizzare il rapporto debito/pil nel medio periodo, soprattutto mediante un aumento del suo denominatore. Ciò dovrebbe inserirsi in un disegno complessivo di politica economica che si fonda sul ruolo della banca centrale come prestatore di ultima istanza e su un progetto comune europeo di intervento pubblico. In altri termini, la sostenibilità delle finanze pubbliche dell’area euro verrebbe assicurata dalla “credibilità” della svolta politica alla base di una nuova direzione di sviluppo economico, con il fondamentale supporto della banca centrale europea.
Il problema è che questi rimedi dovrebbero trovare un deciso sostegno politico che, almeno per il momento, si è coagulato intorno a vari movimenti di protesta, ma in molti casi non viene assicurato (ovvero viene contrastato) dalla classe dirigente al potere. Il possibile aggravamento della crisi condurrà, a nostro avviso, ad un allargamento del sostegno ad un’alternativa radicale. Bisognerebbe, però, anticipare i tempi. A questo scopo, chi si oppone alla strategia neoliberista di gestione della crisi (da “Occupy Wall Street” agli “indignados” di tutto il mondo e ad alcune forze politiche, sindacali e sociali) dovrebbe considerare accuratamente i presupposti economici e politici della parte che si vuole contrastare, così come delle proprie azioni, senza rinunciare ad un indispensabile atteggiamento conflittuale, ma proprio allo scopo di migliorarne l’efficacia. Non è detto, infatti, che le “condizioni materiali” dell’evolversi della crisi (elevata disoccupazione, flessibilità del lavoro, austerità fiscale) siano le più idonee per mettere in moto un cambiamento politico; nell’attuale situazione, anzi, la gestione neoliberista della crisi tende proprio a rafforzare le basi dell’accumulazione capitalistica (cioè ad indebolire ulteriormente le classi lavoratrici). In questo contesto, comunque, la violenza fine a se stessa è senz’altro da evitare, in quanto costituirebbe una strategia destinata a rendere probabile una svolta repressiva, che noi vogliamo evitare e che, invece, con un’azione di contrasto al conflitto sociale, assicurerebbe un prolungamento della fase neoliberista. È quindi necessario sostenere politicamente una ripresa dell’intervento pubblico per gettare le basi di una ripartenza economica “dall’alto” che, a sua volta, rafforzerebbe la costruzione “dal basso” di un’alternativa radicale al neoliberismo.
In questa prospettiva, i salvataggi pubblici andrebbero condotti nella forma di “nazionalizzazioni” o di partecipazione al capitale in proporzione all’intervento attuato, in un contesto che prevede (anche per l’area euro, con un cambiamento del quadro politico ed istituzionale) un ruolo attivo delle banche centrali come “prestatore di ultima istanza”, a sostegno dei governi. Tale strategia sarebbe però incompleta se il settore pubblico, anche grazie alla gestione diretta del credito o alla compartecipazione nelle decisioni bancarie, non svolgesse il necessario ruolo di propulsore di una nuova fase di sviluppo (programmazione), creando quindi le basi per nuove opportunità di profitto per il capitale privato, in un’ottica di collaborazione pubblico-privato (per una proposta che segue una direzione simile, basata su una strategia di reflazione e sviluppo, si veda ). L’aumentata profittabilità contribuirebbe poi a distogliere l’attenzione del capitale dai profitti ricavabili dalla privatizzazione dei “beni comuni” (dall’acqua, all’istruzione, alla cultura, etc.) e dalla speculazione finanziaria, che dovrebbe essere limitata da una seria revisione della regolamentazione dei mercati creditizi e finanziari, mettendo in discussione il primato accordato alla liquidità finanziaria e cambiando quelle regole che, proprio perché sono state seguite, hanno innescato una grave crisi finanziaria.In particolare, il settore pubblico dovrebbe promuovere gli investimenti nei settori ad elevato contenuto di lavoro (istruzione, ricerca, sanità, servizi alla persona e alla famiglia, etc.) – invertendo così la dinamica che sta invece caratterizzando l’attuale evoluzione della crisi – e quelli legati alle tecnologie verdi e al risparmio energetico.
In una fase recessiva, l’investimento pubblico non spiazzerebbe quello privato ma piuttosto creerebbe le basi per un suo aumento all’uscita dalla crisi. La “politica keynesiana” di sostegno alla domanda aggregata, attraverso un opportuno indirizzo degli investimenti, sarebbe anche una “politica industriale” che, con un’adeguata spesa in formazione, accompagnerebbe la transizione verso nuove specializzazioni produttive dei lavoratori “intrappolati” nei settori che presentano redditi in declino (con un impatto potenzialmente negativo in termini di minore domanda per gli altri settori), come conseguenza di un persistente aumento della produttività – l’agricoltura all’epoca della Grande Depressione e la manifattura negli ultimi decenni.
L’Europa dovrebbe procedere unita (dall’integrazione delle politiche fiscali all’organizzazione del conflitto sociale) e l’idea degli eurobonds, per salvaguardare la stabilità finanziaria dell’area dell’euro e, soprattutto, per finanziarie l’azione pubblica su scala europea, è una delle iniziative alle quali dare seguito. In quest’ottica, le forze progressiste dovrebbero collaborare per proporre ai cittadini europei una piattaforma politica comune ed alternativa al modello neoliberista che, sostenuto dalla teoria economica dominante, ha travalicato i confini dei “partiti conservatori” per trovare sostenitori nei vari progetti di “centro-sinistra” (con qualche elemento di mitigazione sociale), e che ha ancora influenti sostenitori.
Alla base di questo progetto politico progressista, dovrebbe esserci un’estensione dell’accesso all’istruzione (e alla ricerca), come base di un modello di sviluppo ispirato al principio diuguaglianza. Evidentemente, sono tanti gli aspetti che rendono diverso un essere umano dall’altro, ma a nostro modo di vedere le caratteristiche che abbiamo in comune prevalgono sulle differenze, che sono quindi dovute soprattutto al contesto socio-economico (si veda, per un’analisi recente,). Consideriamo l’esempio proposto da Adam Smith: “La differenza tra i caratteri più dissimili, per esempio, tra un filosofo e un facchino, sembra sia imputabile non tanto alla natura quanto all’abitudine, al costume e all’educazione”. Tra i possibili interventi volti a contrastare i risvolti sociali negativi della necessaria divisione del lavoro, un ruolo di primo piano spetta proprio all’istruzione, che si configura come un aspetto centrale sia per lo sviluppo economico che per una consapevole partecipazione delle persone alla vita pubblica. A questo proposito è interessante il richiamo fatto recentemente da Guido Rossi all’illuminista Nicolas de Condorcet che aveva individuato l’origine della crisi dell’ordine liberale e della libertà degli scambi del ‘700 nella trasformazione del denaro in potere politico, e del potere politico in influenza sui mercati. Già allora Condorcet poneva come prioritario l’accesso di tutti i cittadini all’istruzione. A nostro avviso, un ripensamento radicale sulle imposte di successione e, in generale, sui patrimoni, avrebbe un chiaro valore simbolico in questa prospettiva, oltre a fornire le basi materiali per un ampio processo di estensione del diritto ad un’istruzione universale
La crisi neoliberista e un nuovo modello di sviluppo
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