Quando parliamo di bipolarismo parliamo essenzialmente di un modello politico astratto. Abbiamo certamente degli esempi “reali” di bipolarismo a cui possiamo riferirci, tra i quali il più importante è probabilmente quello degli Stati Uniti, ma questo non significa ancora nulla da un punto di vista concreto per noi. Come possiamo parlare dunque di crisi del bipolarismo? Esiste davvero un bipolarismo italiano? Non dovremmo forse parlare più semplicemente di crisi del sistema politico italiano?
Un sistema politico si struttura a partire dalla risultante di molteplici fattori socio-culturali che si rapportano con una realtà socio-economica, estrinsecandosi in una dialettica di forze che hanno ciascuna una propria logica e un proprio sviluppo. Si tratterebbe allora di capire non tanto perché ci sia il bipolarismo, quanto piuttosto perché ci sia il bipolarismo statunitense piuttosto che italiano. Non possiamo mai prescindere dalle condizioni di possibilità di un fenomeno, condizioni che strutturano intrinsecamente tale fenomeno e fanno sì che esso abbia la forma che esso ha piuttosto che una qualsiasi altra; E tuttavia tali condizioni sono condizioni storiche e agiscono concretamente proprio in forza di questo loro carattere. Non abbiamo mai a che fare qui con condizioni astratte.
Ciò significa che il sistema politico italiano (nel nostro caso specifico) esiste in forme ad esso proprie in forza di una determinata storia, quella italiana appunto, che si dispiega secondo alcune linee direttrici, per così dire, che non hanno necessariamente a che vedere con quelle proprie di altri paesi e che dunque non conducono necessariamente alle stesse condizioni di possibilità per quanto concerne l’esistenza di un determinato sistema politico.
Ciò che intendo dire è che si tratta di capire se la logica interna del bipolarismo (logica che risulta dal presupposto che esiste almeno un bipolarismo “reale” esistente da cui trarre la nozione stessa di bipolarismo) possa essere compatibile alle condizioni storiche, sociali, ed economiche proprie di un paese come l’Italia o se sia almeno in grado di rappresentare una evoluzione credibile di tale storia.
Dirò subito che propendo per una risposta negativa: in primo luogo perché l’Italia è un paese che presenta una molteplicità di istanze, di movimenti e di partiti ciascuno con un proprio radicamento sociale. Tali realtà sono diverse in quanto sono la risultante di una composizione sociale storicamente determinata ed oggi estremamente variegata in termini di classi e di ceti.
Certamente potremmo pensare ad un bipolarismo pluripartitico (assai diverso da quello bipartitico) ma ciò significherebbe costringere la vita politica del nostro paese all’interno di binari prestabiliti e incapaci alla fine di esprimere qualcosa di diverso dalla mera gestione di decisioni prese in altri luoghi e contesti.
Dobbiamo ricordare che il sistema elettorale e la scelta della commistione, nel caso dell’Italia, di maggioritario e proporzionale, influisce in larga misura sulla forma del sistema politico. Personalmente ritengo che si possa e si debba adottare per l’Italia un sistema alla tedesca, proporzionale con sbarramento al 5-6%, con l’obbligo di dichiarare le alleanze prima del voto e lo scioglimento automatico in caso di “ribaltone”, per evitare qualsiasi forma di trasformismo (un fenomeno tipico della storia italiana). Con buona pace di coloro che sostengono dogmaticamente il bipolarismo, l’Italia è un paese multipolare e policentrico, e nessuna manovra istituzionale prestabilita può sostituire la politica reale che si costruisce a partire dalle istanze della società.
In secondo luogo ritengo che l’Italia sia in grandissima parte un paese che si dimostra oggi incapace di reali cambiamenti (soprattutto laddove questi cambiamenti richiedono di essere gestiti, oltre che attuati). Ciò è dovuto proprio alla natura del sistema dei partiti e alla presenza di due particolari attori dello scenario italiano: le mafie e il Vaticano.
Occorrerebbe esaminare la storia politica d’Italia per dimostrare in modo efficace questa affermazione (cosa che non è chiaramente possibile fare in questa sede), ma in linea generale possiamo certamente dire che la presenza di questi soggetti condiziona radicalmente la vita politica del paese.
Cosa potrebbe significare per questi soggetti il bipolarismo? Le mafie e il Vaticano sarebbero certamente avvantaggiate dalla semplificazione della vita politica portata da un sistema bipolare che faciliterebbe di fatto concentrazioni di potere, infiltrazioni malavitose e legami massonici. Tuttavia questi attori perseguono spesso fini diversi, favorendo di fatto una situazione di perenne stagnazione in grado di bloccare qualsiasi cambiamento rilevante per il paese (fosse pure quello del passaggio ad un sistema bipolare).
Se guardiamo alla storia italiana degli ultimi decenni notiamo come il tentativo di fondare un sistema bipolare sia praticamente fallito sul nascere.
Il sistema proporzionale puro, in uso fino al 1993, favorì negli anni '80 la nascita di partiti esterni ai poli maggiori (il centro e la sinistra), come la Lega Nord e i Verdi. Nel 1994, con l'introduzione del sistema maggioritario con recupero proporzionale, nacque un sistema "tripolare" che comprendeva: il Polo delle Libertà (centro-destra), il Patto per l'Italia (centro), l’Alleanza dei Progressisti (sinistra). Nel 1996 si approdò infine ad un sistema bipolare, ottenuto attraverso la forzatura degli equilibri precedenti, che vide la contrapposizione di due grandi coalizioni: l’Ulivo, poi Unione (centro-sinistra), e il Polo delle libertà, poi Casa delle Libertà (centro-destra).
L'assetto di alleanze bipolari è terminato nel 2008, con lo sfaldamento delle due coalizioni e la nascita di due soggetti politici unitari a forte vocazione maggioritaria, quali il Partito Democratico e il Popolo della Libertà, che hanno scelto alleanze ristrette e non più aperte in funzione di un sistema bipolare. Il prossimo passo sarà forse quello di mettere in discussione la vocazione maggioritaria di questi partiti?
Il feuillieton politico dell’estate è finito. Dopo mesi di discussioni e di chiacchiere, della nuova legge elettorale, quella che aveva chiesto il capo dello Stato Giorgio Napolitano a più riprese, seguito a ruota dal presidente del Senato Renato Schifani, e proprio ieri dal presidente del consiglio Mario Monti, non c’è traccia. Ci sono, in commissione Affari Costituzionali, ben 44 diverse proposte di modifica del mitico Porcellum, ma niente che possa somigliare minimamente ad una sintesi. Dunque, come se nulla fosse successo. Di nuovo al punto di partenza. Ieri, alla riapertura dei giochi politici, quando i rappresentanti dei partiti a Palazzo Madama si sono riuniti nel comitato ristretto per decidere del testo illustrato del Pdl Lucio Malan e dal Pd Enzo Bianco, la montagna non ha partorito neppure il topolino. La nuova legge elettorale non c’è e non ci sarà neppure tra un po’. La volontà politica latita e forse serpeggia tra i partiti anche una pazza idea: ma se si tornasse a votare con il Porcellum? Chissà.
Intanto, il quadro appare nebuloso. E neanche poco. I punti di divergenza sono sostanzialmente due: le preferenze richieste dal centrodestra contro i collegi uninominali voluti dal centrosinistra, e il premio di maggioranza che il Pdl vorrebbe dato al partito e il Pd alla coalizione vincente. Così, se da un lato Malan ha provato a spiegare che “non è opportuno incoraggiare coalizioni fittizie”, riferendosi in primo luogo alla supposta coalizione di centrosinistra spaccata sin dalla scelta se appoggiare o meno il governo tecnico, dall’altro lo stesso presidente della commissione Affari costituzionali Carlo Vizzini si domandava come, tecnicamente, il premio (che lui preferisce chiamare “di governabilità”) possa garantire stabilità se assegnato al primo partito scelto dagli italiani.
Si discute del sesso degli angeli, insomma, in assenza di uno straccio di accordo che segnali la reale volontà politica di arrivare a una nuova legge elettorale. Così si ripiega sulla classica melina. “Noi non sappiamo cosa vuole il Pdl”, contestava ieri la capogruppo democrat Anna Finocchiaro. “E’ evidente che in questa settimana c’è stato un dibattito molto acceso nel Pd, che è in difficoltà nel suo interno”, le rispondeva il vicepresidente pidiellino Gaetano Quagliariello. Ma entrambi sanno di non avere i numeri per scagliare la biblica prima pietra. Di certo non il Pdl che ieri è arrivato alla riunione assolutamente impreparato. E spaccato al suo interno sulla questione delle preferenze che nessuno vuole, tranne che la frangia più riottosa e antimontiana. “Il Pd sappia che in Parlamento c’è chi si batterà fino all’ultimo per introdurre nella nuova legge elettorale il sistema del voto di preferenza, che garantisce agli italiani la libertà di decidere direttamente da chi farsi rappresentare”, dichiaravano ieri in una nota Giorgia Meloni, Renato Brunetta, Guido Crosetto, Pino Galati, Viviana Beccalossi e Fabio Rampelli.
Un fronte che, come al solito, avrebbe dovuto essere ricondotto a più miti consigli dal Cavaliere, in una riunione convocata a Palazzo Grazioli e poi rimandata perché Berlusconi doveva essere interrogato dai magistrati palermitani. Così, ubi maior minor cessat, in assenza di indicazioni dall’alto i senatori pidiellini nel comitato ristretto non sapevano che pesci pigliare, facendo così il gioco del Pd che si guarda bene dal proporre una qualsiasi trattativa che possa sbloccare lo stallo. Nel partito, d’altra parte, c’è chi vorrebbe andare a votare il prima possibile per archiviare l’esperienza tecnica, come c’è invece chi vorrebbe lunga vita al governo Monti, o almeno alla sua agenda. E dunque la fine naturale della legislatura. Che, in fin dei conti, farebbe comodo anche a Berlusconi, la cui macchina elettorale fatica a ingranare ma che, al contempo, non scioglierà la prognosi della propria candidatura senza avere la certezza su quale sarà il sistema elettorale con cui si andrà a votare.
Tutti argomenti di un certo peso, che nulla però hanno a che fare con l’auspicata (da tutti, almeno a chiacchiere) stabilità del prossimo esecutivo, essendo più affini alla tutela del potere da parte di chi ne è ancora il titolare, commentava ieri con amarezza un senatore di lungo corso. E, alla fine, Vizzini ha battuto il pugno sul tavolo, trattando i senatori alla stregua di alunni indisciplinati: “Se nella prossima settimana non ci saranno novità, dopo aver informato il presidente Schifani, proporrò di tornare in commissione perché l’unica sede dove si può continuare questo dibattito è la sede plenaria dove si discute ma alla fine si vota anche”.
Facile a dirsi, ma più difficile a realizzarsi, visto che in commissione sono depositati 44 disegni di legge di riforma elettorale. Da quale si comincia? Si fa una riffa? Estrazione a sorte? L’idea di Vizzini è quella di ripartire dal testo di Malan e Bianco: “Certo, su alcuni punti c’è accordo e su altri no, e ci vorrebbe davvero un accordo politico”. Anche perché si rischia il bis delle riforme costituzionali: il pareggio nel voto, in cui nessuno vince. Ma su un punto Vizzini è fermo: “Qui serve un compromesso alto. Non vorrei che gli elettori pensassero che qui si cincischia perché in fondo il Porcellum sta bene a tutti. Anche perché io ho firmato il referendum per abolire questa legge elettorale, e sulla riforma ci sto mettendo la faccia”. Ma, si sa, l’elettore ha sempre ragione.
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