Sono numerosissimi coloro che hanno indicato nel predominio della finanza la forma specifica del capitalismo contemporaneo, quella che ha generato la crisi in cui il mondo è immerso. Di qui la tendenza a enfatizzare il processo di finanziarizzazione e la sua presa crescente sulle attività economiche, che verrebbero subordinate alla sua potenza. In questa prospettiva non sorprende la riproposta di un classico del marxismo del Novecento come "Il capitale finanziario" di Rudolf Hilferding un'autentica pietra miliare nella storia e nella cultura della socialdemocrazia tedesca.
Hilferding era un pediatra ebreo di Vienna, che presto preferì agli studi di medicina il rinnovamento della teoria di Marx. Ciò che battezzò come capitale finanziario era quell'intreccio peculiare di banca e industria, rubricato in seguito come "modello renano", cui deve la sua forza il capitalismo tedesco. Per Hilferding, che scrisse il suo libro all'inizio del secolo scorso, la dinamica che portava alla centralizzazione dei capitali apriva la strada a una straordinaria concentrazione di potere, in cui le sfere dell'economia e della politica si mescolavano e si confondevano, preparando così di fatto l'avvento del socialismo. Dopo la prima guerra mondiale, Hilferding divenne una delle personalità principali della socialdemocrazia e della vita politica della Repubblica di Weimar, assumendo per due volte la responsabilità del ministero delle Finanze negli anni Venti. Subentrò poi il periodo tragico dell'esilio, con una morte oscura, per mano della Gestapo, nel 1941, nella Francia occupata dai nazisti.
Questo testo conserva dunque tutta la sua attualità, soprattutto ai nostri giorni in cui l’intreccio politica e finanza è più profondo e invadente che mai; non per nulla c’è un continuo passaggio di esponenti dal mondo finanziario al mondo politico e viceversa (dall’Italia di Carli, Ciampi e Dini agli Stati Uniti di Clinton, Bush jr e Obama). Inoltre lo stato trae enormi vantaggi dalle speculazioni finanziarie (negli ultimi anni un quarto delle entrate fiscali dello stato inglese sono derivate dal settore finanziario). Per cui coloro che chiedono allo stato di regolamentare le transazioni finanziarie per farla finita con le speculazioni è come se chiedessero ai magnacci di regolamentare il mercato del sesso per farla finita con la prostituzione.
Quello che è invece assolutamente necessario è abbandonare gli speculatori (la casta politico-burocratico-finanziario-bancaria) al loro destino cioè la bancarotta (altro che salvataggi con i denari dei cittadini) e conquistarsi la libertà di sperimentare forme e modi di pagamento che vadano oltre l’imposizione dei biglietti di banca a corso legale (in altre parole, a corso forzoso) che, con la crescita dell’indebitamento degli stati, sempre più diventeranno carta straccia, neanche buona per pulirsi le scarpe.
Ostile allo statalismo, la borghesia fu - un tempo - in lotta contro il mercantilismo economico e l’assolutismo politico. Il liberalismo era allora realmente distruttivo, implicava di fatto il sovvertimento del potere statale e la rottura di antichi vincoli. Tutto il sistema dei rapporti gerarchici dello Stato - faticosamente costruito - ed i legami corporativi cittadini con la loro complicata sovrastruttura di privilegi e monopoli, vennero spazzati via. La vittoria del liberalismo provocò un immediato e considerevole indebolimento dell’autorità dello Stato. La vita economica avrebbe dovuto essere - almeno in teoria - definitivamente sottratta al controllo dello Stato, che doveva limitarsi a garantire la sicurezza e l’uguaglianza borghesi.Il liberalismo diveniva così la negazione pura e semplice dello Stato del primo periodo mercantilistico del capitalismo, il quale, in principio, voleva regolare tutto, ed era anche in netto contrasto con tutti i sistemi socialistici, i quali, non in senso distruttivo, ma costruttivo, vogliono porre al posto dell'anarchia e della libertà della concorrenza un sistema consapevolmente regolato, creando una società che organizzi la propria vita economica e quindi anche se stessa. È perciò appena naturale che i princìpi liberali si siano realizzati più precocemente in Inghilterra, dove erano sostenuti da una borghesia tutta per il libero scambio, una borghesia che, anche durante i periodi di più acuto contrasto con il proletariato, si lasciò spingere ben raramente a chiedere l'intervento dello Stato e, comunque, lo fece solo per brevi periodi. Anche in Inghilterra, però, la realizzazione del liberalismo urtò non solo contro la resistenza della vecchia aristocrazia che appoggiava una politica protezionistica ed era, quindi, recisamente contraria ai princìpi liberali, ma anche, in parte, contro quella del capitale commerciale, e del capitale bancario che aspiravano ad investimenti all'estero e pretendevano soprattutto il mantenimento dell'egemonia sui mari, pretesa, questa, che veniva avanzata e con estrema energia anche dagli ambienti interessati alle colonie. Sul continente la concezione liberale dello Stato riuscì ad imporsi solo parzialmente e con grandi compromessi. Abbiamo qui un tipico esempio di contraddizione tra ideologia e realtà: mentre infatti i continentali, in ogni campo della vita politica e spirituale, con acume e rigida consequenzialità, riuscirono a trarre tutte le possibili conseguenze teoriche dai princìpi liberali a cui i Francesi avevano impresso la classica configurazione (giacché lo sviluppo più tardo li aveva forniti di strumenti di indagine scientifica più perfezionati di quelli inglesi) elaborando perciò sulla base della filosofia razionalistica una formulazione del liberalismo ben più vasta ed esauriente di quella inglese, che rimase chiusa entro l'ambito ristretto della scienza economica, sul piano pratico invece le realizzazioni politiche furono sul continente molto meno radicali di quelle inglesi.
Del resto, non è neppure pensabile che proprio la borghesia continentale - che aveva bisogno dello Stato come della più potente leva della propria ascesa, e che non intendeva, quindi, eliminare lo Stato ma trasformarlo da ostacolo a veicolo del proprio sviluppo - fosse in grado di procedere all'esautoramento del potere statale richiesto dal liberalismo. Ciò di cui la borghesia continentale aveva soprattutto bisogno era la eliminazione delle più piccole formazioni statali, la sostituzione del piccolo Stato impotente con lo strapotente Stato unitario. L'esigenza della creazione dello Stato nazionale spingeva la borghesia su posizioni favorevoli alla conservazione dello Stato. Nel continente, poi, non era in gioco solo il dominio sul mare, ma anche il dominio sulla terraferma. L'esercito moderno ha, peraltro, un'importanza ben maggiore della flotta, nel determinare i rapporti tra la società civile e il potere dello Stato.
Quest'ultimo, una volta caduto in mane a coloro che possono disporre dell'esercito, - e ciò avviene inevitabilmente ove esista un forte esercito di terra - assume una completa autonomia. Il servizio militare obbligatorio, che ha armato le masse, doveva d'altronde convincere ben presto la borghesia della necessità di imporre all'esercito (che altrimenti sarebbe potuto divenire una minaccia al suo potere) un'organizzazione rigidamente gerarchica creando una casta di ufficiali capace di funzionare da docile strumento in mano allo Stato. Mentre da un lato quindi in paesi come la Germania, l'Austria e l'Italia, il liberalismo non riusciva a realizzare le proprie premesse teoriche riguardanti lo Stato, esso vedeva dall'altro bloccarsi il proprio sviluppo in tal senso persino in Francia, giacché la borghesia francese, per ragioni di politica commerciale, non poteva rinunciare allo Stato. Ciò anche perché era inevitabile che la vittoria della rivoluzione finisse col complicarsi in una guerra su due fronti: e infatti, da un lato le conquiste rivoluzionarie dovevano essere difese contro il feudalesimo del continente, mentre, dall'altro, la creazione di un nuovo Stato capitalistico moderno minacciava l'antica posizione egemonica dell'Inghilterra sul mercato mondiale. La Francia dovette così ingaggiare simultaneamente una lotta contro il continente ed una contro l'Inghilterra, per l'egemonia sul mercato mondiale. La sconfitta della Francia rafforzò in Inghilterra la posizione della proprietà fondiaria, del capitale commerciale, bancario e coloniale, e con ciò il potere statale, a scapito del capitale industriale, ritardando così l'inizio della definitiva egemonia del capitale industriale inglese, e la vittoria del libero scambio. La vittoria inglese, inoltre, spinse il capitale industriale europeo su posizioni favorevoli al protezionismo, frustrando completamente gli sforzi dei sostenitori del libero scambio, e creando, al tempo stesso, quelle condizioni che erano destinate a favorire, sul continente, il più rapido sviluppo del capitale finanziario. L'adeguazione dell'ideologia e della concezione dello Stato borghese alle esigenze del capitale finanziario trovò perciò in Europa ostacoli tutt'altro che inamovibili. Il fatto poi, che l'unificazione della Germania fosse avvenuta in senso controrivoluzionario, non poté non rafforzare straordinariamente, nella coscienza del popolo tedesco il rispetto per lo Stato, mentre in Francia la disfatta militare fece sì che tutte le energie si concentrassero sul problema della ricostituzione del potere statale. Le esigenze del capitale finanziario favorirono in tal modo la nascita e la diffusione di elementi ideologici che il capitale finanziario poté poi facilmente utilizzare per elaborare una nuova ideologia adeguata ai propri interessi. Quest'ultima è però in netto contrasto con quella del liberalismo. Il capitale finanziario non chiede libertà, ma dominio: non tiene in alcun conto l’autonomia del singolo capitalista, anzi ne pretende l'assoggettamento; aborrisce l'anarchia della concorrenza e promuove l'organizzazione solo per poter condurre la concorrenza in ambiti sempre più vasti. Per riuscire in ciò, per poter conservare ed aumentare il proprio prepotere, esso ha però bisogno dello Stato il quale, con la sua politica doganale, deve garantirgli il mercato interno e facilitargli la conquista di quelli esteri. Il capitale finanziario ha bisogno di uno Stato politicamente forte che, nei suoi atti di politica commerciale, non sia costretto ad usare alcun riguardo agli opposti interessi di altri Stati.
È quindi necessario uno Stato forte, capace di far valere i suoi interessi finanziari all'estero e di servirsi della propria potenza per estorcere agli Stati meno potenti vantaggiosi trattati di fornitura e favorevoli transazioni commerciali; uno Stato che possa spingersi in ogni parte del globo per fare del mondo intero zona di investimento del proprio capitale finanziario; uno Stato, infine, sufficientemente forte per condurre una politica espansionistica e per potersi incorporare nuove colonie. Mentre il liberalismo era contrario ad una politica di forza dello Stato e voleva garantirsi il controllo sugli strumenti del potere dell’aristocrazia e della burocrazia, cercando di sottrarre a queste ultime gli organi dello Stato, ora la politica di forza diviene una precisa ed incondizionata richiesta del capitalismo finanziario; ciò avviene comunque anche senza tener conto del fatto che le esigenze dell’esercito e della flotta assicurano proprio ai più forti settori capitalistici uno smercio imponente con utili per lo più monopolistici.
L’aspirazione ad una politica espansionistica rivoluziona però anche tutta la “Weltanschauung” della borghesia, che allontana definitivamente gli ideali pacifisti ed umanitari. I vecchi liberoscambisti credevano nel libero scambio non solo come la politica economica più giusta, ma anche come il presupposto della nascita di un’era di pace. Il capitale finanziario ha perduto da tempo questa speranza. Esso non si illude più che gli interessi capitalistici possano venire armonizzati, ma sa che la lotta concorrenziale si trasformerà sempre più in una lotta per la potenza politica. L'ideale della libertà di scambio dilegua; al posto dell'umanitarismo subentra l’esaltazione della grandezza e della potenza dello Stato. Lo Stato moderno è sorto come realizzazione dello sforzo unitario della nazione. Il pensiero nazionale che ha toccato i suoi limiti naturali nel costituirsi della nazione a fondamento dello Stato (giacché in questo modo esso ha riconosciuto a tutte le nazioni il diritto di creare proprie formazioni statali facendo coincidere i confini dello Stato con i confini naturali della nazione) viene ora soppiantato dall'ideale dell'esaltazione della propria nazione al di sopra delle altre. [Si veda: Otto BAUER. "Marx-Studien” II, par. 30, pp. 491 e sgg. Der Imperialismus un das Nationalitätsprinzip (L'imperialismo e il principio di nazionalità)]
La massima aspirazione è ora quella di assicurare alla propria nazione il dominio sul mondo, un'aspirazione non meno illimitata di quella del capitale al profitto, da cui anzi scaturisce. Il capitale parte alla conquista del mondo e ad ogni nuova conquista esso non fa che toccare nuovi confini che sarà spinto a valicare. Questa espansione incessante è ora una inderogabile necessità economica, perché rimanere indietro significa caduta del profitto del capitale finanziario, diminuzione della sua capacità concorrenziale e, come ultimo effetto, subordinazione del territorio economico rimasto più piccolo rispetto a quello divenuto più esteso. Questa aspirazione espansionistica causata da esigenze economiche, viene giustificata ideologicamente mediante uno strabiliante capovolgimento dell’idealità nazionale, la quale ora non riconosce più ad ogni nazione il diritto all'autodeterminazione e all'indipendenza politica e non esprime più il dogma democratico dell'uguaglianza sul piano internazionale di tutto ciò che è umano. Al contrario, le aspirazioni economiche del monopolio si rispecchiano nella posizione di privilegio che esso pretende per la propria nazione. I privilegi appaiono più di ogni altra cosa come frutto di predestinazione. Poiché l'assoggettamento di nazioni straniere avviene con la violenza e, quindi, in un modo molto naturalistico, sembra che la nazione dominante debba questa sua egemonia alle sue specifiche caratteristiche naturali, e cioè alle sue qualità razziali. L'ideologia della razza, quindi, non è altro che il tentativo di fondare scientificamente, con un camuffamento biologico, la volontà di potenza del capitale finanziario che intende in tal modo presentare i suoi movimenti come ineluttabili e condizionati da leggi naturali. Al posto dell'ideale egualitario democratico subentra ora un ideale egemonico oligarchico. Laddove sul terreno della politica estera, questo ideale ha come oggetto, nell'apparenza, l'intera nazione, su quello della politica interna esso diviene accettazione ed accentuazione del punto di vista padronale che tenta di subordinare al proprio quello della classe operaia.
La forza crescente dei lavoratori stimola al contempo il capitale a rafforzare ulteriormente il potere statale per garantirsi contro le richieste dei proletari. L'ideologia dell'imperialismo sorge quindi come superamento della vecchia ideologia liberale. Essa si fa beffe dell'ingenuità di quest'ultima. È pura illusione credere ad un'armonia di interessi nel mondo della lotta capitalistica, dove a decidere è solo la superiorità delle armi; illusione attendere il regno della pace perenne e predicare un diritto dei popoli, quando è solo la potenza a decidere della loro sorte; follia voler trasportare al di là dei confini dello Stato il sistema dei rapporti giuridici che regolano la vita al suo interno. Stupida e irresponsabile seccatrice davvero, questa infatuazione umanitaria che viene a disturbare gli affari e che, dopo aver fatto dei lavoratori un problema, ha scoperto, all'interno dello Stato, le riforme sociali e nelle colonie vuole eliminare la schiavitù contrattuale, unica possibilità di un razionale sfruttamento! Quello di una giustizia immutabile è un bel regno, ma con l'etica non si costruiscono certo ferrovie. Come fare a conquistare il mondo, se si vuole prima aspettare che la concorrenza si converta ai nuovi ideali?
L'imperialismo dissolve tutte queste illusioni solo per sostituire all'ormai sbiadito ideale della borghesia una nuova, grande illusione. Freddo e positivo finché si tratta di considerare il reale conflitto di interessi dei gruppi capitalistici e di concepire tutta la politica come affare privato di monopoli che reciprocamente si combattono, ma che possono anche unificarsi, esso diviene però improvvisamente passionale ed estatico quando si mette a parlare del proprio ideale. L'imperialista non vuole nulla per sé: non è però un illusionista o un sognatore per risolvere in uno scialbo concetto di umanità la variopinta realtà di un inestricabile groviglio di razze nei più vari gradi e con le più diverse possibilità di sviluppo. Egli osserva il guazzabuglio dei popoli con occhio duro e acuto e al di sopra di tutti fissa la propria nazione. La nazione è reale: essa si invera nello Stato che diviene sempre più potente e più grande: per farla assurgere ai più alti fasti nessuno sforzo è troppo gravoso. L'abbandono dell'interesse particolaristico per un più alto interesse comune che ogni ideologia sociale deve includere per essere vitale è con ciò consumato; lo Stato, un tempo estraneo al popolo, e la nazione stessa, formano ora una salda unità di cui l'idea nazionale posta al servizio della politica è la forza propulsiva. I contrasti tra le classi sono svaniti e superati a favore di un ideale della collettività. Al posto della lotta delle classi, pericolosa e senza via d'uscita per i padroni, subentra l'azione comune della nazione tutta, tesa alla conquista della grandezza nazionale.
Tale ideale, che sembra costituire un nuovo legame capace di tenere insieme la dilacerata società borghese, è destinato a riscuotere consensi entusiastici, perché nel frattempo il processo di disgregazione della società borghese è andato ulteriormente aggravandosi.
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