Anche in Italia iniziano a farsi sentire le voci degli studiosi ‘dissidenti’ che mettono in dubbio i dogmi ufficiali sulle cause della recessione e sui modi per uscirne: dal pareggio di bilancio fino ai tagli sociali
La spesa pubblica? Non è il problema principale, conta di più il debito privato di banche e imprese. La ricetta per uscire dalla crisi? Non l’austerity che la Bce sta imponendo all’Italia e agli altri Piigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) ma la crescita, anche finanziata dallo Stato.
Non sono le tesi di un politico in cerca di consensi ma le convinzioni di una nutrito gruppo di economisti. «Anzi», spiega Alberto Bagnai, docente di economia politica all’Università di Pescara, «è l’opinione maggioritaria della comunità accademica internazionale.
Che alla base della crisi europea ci siano gli squilibri nella bilancia dei pagamenti tra i Paesi dell’Eurozona e non i loro debiti pubblici lo sostengono quasi tutti gli addetti ai lavori. Con l’eccezione degli economisti legati alla Bce, in chiaro conflitto di interessi. E dei seguaci dei ‘Chicago Boys’, che credono nella capacità assoluta del mercato di autoregolarsi». Insomma, secondo Bagnai e gli altri economisti del “dissenso”, Bce e governi stanno seguendo le ricette sbagliate. Con l’appoggio dell’opinione pubblica, influenzata da una classe politica e da un sistema dell’informazione che hanno sposato le tesi dell’austerità..
Ma qualcosa sta cambiando. Di fronte al perdurare della crisi nonostante tagli e sacrifici, le voci fuori dal coro stanno aumentando. Economisti come Emiliano Brancaccio, che insegna all’Università del Sannio, Alberto Borghi Aquilini, docente alla Cattolica, Sergio Cesaratto, che insegna a Siena, Gennaro Zezza, dell’Università di Cassino, lo stesso Bagnai e altri ancora cominciano ad essere invitati a scrivere sui giornali e ad apparire nei talk-show televisivi.
La strada però è ancora lunga. Lo conferma Emiliano Brancaccio, autore con Marco Passarella del recente L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa’ (Il Saggiatore, euro 13): «Sostenere che dalla crisi si esce facendo sacrifici è una tesi di facile presa. La gente infatti è portata a guardare al bilancio dello Stato come al bilancio della propria famiglia. Ci sono dei debiti? Basta stringere la cinghia. Invece uno Stato si regge su meccanismi più complessi. Se, in fase di recessione, un Paese stringe la cinghia, cioè taglia la spesa pubblica e aumenta le tasse, la sua economia si contrarrà. Col risultato che il rapporto tra debito e Pil, invece di diminuire, aumenterà. Infatti, con il governo Monti questo rapporto ha raggiunto il record negativo del 126 per cento».
«Per la maggioranza degli economisti è pacifico che il debito pubblico non sia il problema principale», conferma Bagnai. «Basta pensare che prima della crisi quello italiano stava diminuendo. E che la tempesta attuale ha colpito per primi Spagna e Irlanda che avevano un debito minore di quello tedesco. Quindi, lo spread non deriva dal debito pubblico».
Da che cosa è causato, allora? In sostanza, dicono Bagnai e gli altri, è un problema di bilancia dei pagamenti: sono deboli, e quindi passibili di alti spread, i Paesi che si indebitano con l’estero perché importano molto più di quanto esportino. E’ quanto è avvenuto dall’introduzione dell’euro allo scoppio della crisi nel 2007: in questo periodo nei Piigs – spiega Bagnai sul suo blog – è esploso il debito privato, spesso verso banche estere, con aumenti dai 31 (Italia) ai 98 punti di Pil (Irlanda e Spagna). Quella che ora viene presentata come crisi bancaria causata da una crisi del debito pubblico, sostiene sempre Bagnai, nei dati si presenta in modo opposto: la crisi da debito pubblico è causata dal dissesto finanziario del settore privato. E il debito privato si è accumulato nei Piigs proprio perché la moneta unica ha impedito alle economie meno competitive di difendersi con la svalutazione, come avveniva prima.
Bravi allora i tedeschi nella gara della competitività? Sì, rispondono i “dissidenti”, i tedeschi sono stati più efficienti. Ma attenzione: la loro competitività è figlia anche del contenimento dei salari pianificato per fare concorrenza ai Paesi periferici dell’Eurozona. «In Germania nell’ultimo decennio i salari sono stati mantenuti sempre al di sotto dell’aumento della produttività», chiarisce Emiliano Brancaccio. «In questo modo i tedeschi hanno potuto aumentare al massimo il loro surplus verso gli altri Paesi Ue, creando uno squilibrio insostenibile in seno alla zona euro. Ora la Bce vorrebbe correggerlo imponendo ai Piigs di abbattere i salari, le spese interne e le importazioni. Ma la ricetta, è sbagliata, perché finirà per aggravare la depressione europea».
Uscire dall’euro e dal cambio fisso è quindi una possibile soluzione? Su questo punto le opinioni divergono. Alberto Bagnai non crede alla possibilità di riformare questa unione monetaria e reputa “terroristiche” le opinioni di chi pensa che il ritorno alla moneta nazionale sarebbe una sciagura. «Avremmo una svalutazione del 20 per cento circa, come nel 1992 quando uscimmo dall’Ecu», spiega nel suo blog Goofynomics. «E l’inflazione potrebbe rimanere persino stabile, come avvenne allora». Con altri, Emiliano Brancaccio pensa invece che l’uscita dalla moneta unica sia una prospettiva possibile ma dagli esiti controversi. A suo avviso, bisognerebbe esercitare tutte le pressioni affinché la Germania si faccia carico almeno in parte del riequilibrio delle bilance commerciali, per esempio aumentando salari e consumi interni.
I termini del discorso stanno insomma cambiando. Il totem intoccabile dell’austerità e dei tagli sociali come ricette anti-crisi viene messo in discussione, almeno dagli studiosi. Fra quanto tempo anche la politica lo farà?
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