La Corte costituzionale non ammetterà i due referendum sui sistemi elettorali. È questa una previsione forse arrischiata ma fondata su argomentazioni e perplessità d'ordine propriamente giuridico. È, inoltre, un auspicio dettato da motivazioni di politica del diritto costituzionale.
Dal punto di vista giuridico tutto ruota attorno all'ipotesi di poter far rivivere una precedente legge abrogata: tesi che è alla base del disegno «politico» dei referendari. Il fine intrinseco al quesito che si vuole venga sottoposto agli elettori, infatti, non è riconducibile alla mera cancellazione dell'attuale indecente e incostituzionale legge elettorale. Si propone anche e soprattutto di tornare al sistema precedente, al fine di conservare il bipolarismo coatto che è alla base della lenta agonia della nostra democrazia costituzionale: una precisa scelta politica di conservazione dell'esistente, perseguita attraverso un'evidente forzatura istituzionale. Ma rappresenta anche una strategia di corto respiro. I giudici costituzionali hanno, infatti, espressamente dichiarato l'impossibilità di far rivivere una legge non più vigente attraverso un atto puramente abrogativo qual è il referendum. Dunque, salvo ripensamenti e modifiche dei precedenti, sempre possibili, la previsione è che la Corte dichiarerà l'inammissibilità di entrambi i quesiti referendari.
L'esito ora indicato non è però scontato. Le oscillazioni della giurisprudenza costituzionale in materia referendaria sono note e rendono ciascun giudizio un caso a sé. Non per nulla autorevoli costituzionalisti si stanno spendendo per argomentare le ragioni dell'ammissibilità, a fronte di altri, non meno autorevoli, che rimangono scettici. Sin dall'inizio dell'avventura referendaria ci si è espressi sulle ragioni degli uni e degli altri (vedi il manifesto del 12 luglio 2011); è ora il caso di chiedersi se valga la pena impegnarsi a definire strategie discorsive per convincere la Corte a cambiare il suo orientamento e aprire così le porte a una consultazione referendaria per la restaurazione del precedente sistema elettorale.
Qui entrano in gioco le ragioni di politica del diritto costituzionale che si pongono alla base della richiesta dei referendum. 

L'impressione è che i tanti sostenitori (soprattutto a sinistra) del ritorno alle origini del maggioritario dimostrino un eccessivo timore se non proprio un'incapacità di comprendere i tempi, e si mettono così al servizio di una causa sbagliata. Il contraccolpo potrebbe rivelarsi tremendo, quando ci si accorgerà - troppo tardi - che la vera possibile fuoriuscita dai tempi bui che stiamo ancora attraversando è condizionata dalla capacità di rimettere in discussione non solo l'ultima legge del berlusconismo morente (quella che si vuole in effetti abrogare), ma anche la prima del berlusconismo nascente (quella che si vuol invece resuscitare).
Per la sopravvivenza di una prospettiva di sinistra in Italia, quel che appare necessario è una rottura di continuità. In tutti i campi, tra cui certamente quello politico-istituzionale. Ma per perseguire questo impegnativo obiettivo - l'unico possibile se non ci si vuol arrendere allo stato di cose presenti - è necessario rimettere in discussione l'intera storia dell'ultimo ventennio. Lottare per un ritorno all'origine di tutti i nostri incubi, confidando sul fatto che l'uomo nero non ricompaia, non appare una grande strategia. Anzi rende palese l'incapacità d'innovazione e condanna i soggetti politici all'impotenza politico-strategica. Al più permette di adottare misure occasionali con il solo scopo di limitare i danni: cancellando l'orrida legge elettorale vigente per tornare all'indigesta legge precedente. Mesta aspirazione, triste deriva della politica. Eppure, invertire la rotta sarebbe possibile. Le precarie condizioni del momento, la fine di un ciclo, l'incertezza sui futuri equilibri politici, l'indeterminatezza delle alleanze tra i partiti, l'insofferenza diffusa e crescente, possono favorire la riflessione critica. Dovrebbero favorirla, protetti da una sorta di rawlsiano «velo d'ignoranza». Se la sinistra riuscisse a mettere da parte i discorsi di piccolo cabotaggio, le risse, le convenienze delle corporazioni e dei gruppi, potrebbe farsi interprete di una nuova stagione di riforme. A partire da quella elettorale, che deve essere modificata, ma per ricostruire una rappresentanza politica smarrita, per rivitalizzare un Parlamento in coma, per riconciliare la società civile con la società politica. Non per proseguire sulla strada che ci ha condotto sin qui.
Se la Corte costituzionale sgombrerà il campo dall'equivoco referendario è questa la partita che si aprirà. Se c'è una sinistra è ora che batta un colpo. La scelta è tra l'abbandono del bipolarismo e la coazione a ripetere.