di Aldo Civico


Da due settimane mi trovo in una località al confine tra la Turchia e la Siria. Per raggiungere il luogo dove svolgo un seminario in risoluzione dei conflitti per leader civili della resistenza contro il regime di Assad, la macchina passa vicino a un campo profughi siriano, un grande ricettacolo della tragedia di un popolo da tutti abbandonato. In queste ore giunge anche qui l'eco dei tamburi di guerra che promettono un'azione punitiva degli Stati Uniti.


Quando l'invito alla preghiera diffuso dall'alto di un minareto si allunga sulla città insieme alle ombre della sera, seduto in un cortile parlo con Ammar, che con pazienza, e superando grandi ostacoli, sta intessendo le trame di un movimento civile in Siria che sogna e vuole costruire un nuovo paese. Tra una boccata e l'altra di narghilè al sapore di menta, scambiamo idee, analisi, frustrazioni e speranze.

La frustrazione maggiore di Ammar, è con il mondo occidentale, caduto in letargo di fronte al dramma di un popolo violentemente oppresso da un regime sanguinario e crudele. "Siamo l'ennesimo fallimento della politica occidentale nel Medio Oriente", dice amaro Ammar. Le sue parole sono una eco di altre espressioni di risentimento e disperazione che ho raccolto in questi giorni. "Ciò che spicca è la perdita di credibilità degli Stati Uniti e la mancanza di coerenza dell'Occidente", mi dice un giovane attivista. "L'indifferenza del mondo occidentale ha alimentato il ciclo della violenza in Siria in questi anni," afferma un ex soldato dell'esercito di Assad che ha optato per la diserzione.

Quando ci raggiunge la notizia di un nuovo e devastante attacco con armi chimiche, che ha ucciso almeno un migliaio di persone nella periferia di Damasco, una donna curda, avvocato e difensore di diritti umani, manifesta il suo dolore e la sua rabbia :"Non mi aspetto niente e non voglio niente dall'Occidente ipocrita", dice con voce ferma e secca."Abbiamo tutte le risorse per difenderci e per evitare il genocidio del nostro popolo" aggiunge dopo avermi raccontato come uomini armati affiliati ad Al Qaeda, dalle lunghe barbe e dai turbanti neri, in un piccolo villaggio abbiano ucciso una decina di uomini davanti agli occhi delle mogli e dei bambini.

È tragico, ed anche angosciante, ascoltare queste storie, che sono pure una testimonianza dell'incapacità di una solidarietà effettiva e globale. Ahmed, che proviene da Damasco, ha 27 anni ed è medico. E' stato uno dei primi ad organizzare la resistenza contro il regime di Assad. "Durante l'attacco con armi chimiche di due mesi fa, metà della mia famiglia e dei miei parenti sono stati uccisi," mi racconta con un sorriso amaro. "Sono stato il primo medico ad entrare nelle zone colpite, con alcuni flaconi di medicinali svizzeri che mi sono stati venduti al prezzo di 100 dollari ciascuno, un prezzo esorbitante". Ahmed è ripartito una decina di giorni fa, e non ho notizie del suo destino dopo l'attacco della scorsa settimana.

Shameran è una donna col volto incorniciato in un chador color nocciola. Prima della rivoluzione, lavorava come giudice nella sua città e oggi è la leader di una rete crescente di donne, che si oppone a Assad e lavora per i diritti umana. "Le truppe di Assad hanno ucciso i miei due fratelli," mi racconta. "Non siamo un popolo violento e siamo insorti con proteste pacifiche", dice. Uno dei fratelli, ferito dagli agenti di Assad, è stato ammazzato nelle corsie dell'ospedale dove lo stavano curando. "Di fronte alla violenza del regime, ci siamo dovuti armare, per difenderci", mi spiega.

Sabri, ha 25 anni ed è curdo. Mi racconta di come il suo popolo non solo deve combattere con l'esercito di Assad ed i paramilitari del Comitato Popolare di Milizie, ma anche contro la Jabhat al-Nusra, le armate degli estremisti islamici. Sabri però non si fida neppure dell'Esl, l'Esercito Siriano Libero. Racconta :"Nella mia città, il comandante dell'Esl, è lo stesso che mi ha arrestato e torturato quando ero all'università e mi sono rifiutato di collaborare con i servizi segreti siriani".

Quando gli chiedo di Obama, ride e mi risponde in italiano con un sonoro "vaffanculo", espressione che ha imparato da un foto-giornalista nostrano. Molti degli amici di Sabri si sono arruolati nei gruppi di resistenza armata curda. Pur riconoscendo il diritto all'autodifesa, ha rinunciato alla lotta armata, ma ha deciso piuttosto di aiutare giornalisti stranieri ad entrare clandestinamente in Siria, perché raccontino il dramma del suo popolo. "Camminiamo tra due fuochi - mi dice - Se usiamo la violenza, perderemo la nostra anima. Se non ci armiamo, rischiamo l'estinzione".

Le immagini delle vittime civili dell'attacco con armi chimiche della scorsa settimana, hanno provocato nel mondo occidentale una onda di emozioni, e sprigionato la retorica dell'intervento umanitario. Il segretario di stato americano John Kerry ha parlato di "oscenità morale" e, per dare un tocco umano alle sue parole, ha sottolineato che come padre di famiglia non è rimasto scosso dalle immagini delle salme di bambini innocenti avvelenati dai gas. La maggior parte dei siriani coi quali ho parlato in questi giorni, spera in un intervento guidato dagli Stati Uniti, per quanto tardivo, con la speranza, ovvero la illusione, che possa incrinare in maniera decisiva la forza dell'esercito di Assad.

In realtà, dubito che la soluzione di un'intervento umanitario sia una soluzione. Ma la inazione sarebbe peggiore. Il lancio di missili cruiser su obiettivi militari precisi (l'ennesima operazione chirurgica) sembra essere oggi un'opzione necessaria e inevitabile. E' comunque il risultato di due anni in cui gli Stati Uniti, Europa e le Nazioni Unite, sono stati protagonisti di un'azione diplomatica inadeguata, timida, ed inefficace, lasciando che la situazione degenerasse progressivamente in uno scenario da guerra civile. Ammar, il mio interlocutore, vede l'intervento degli Stati Uniti, come inevitabile:"Sarebbe peggio, se gli Stati Uniti non punissero oggi Assad, e domani scagliassero i droni contro gli estremistii: ciò favorirebbe la rivolta musulmana e il rafforzamento delle organizzazioni come al-Qaeda".

Nelle prossime ore, o nei prossimi giorni, il presidente Obama darà probabilmente il via libera ad una azione militare. Sarà concepita come un'azione punitiva, ovvero un'intervento militare non accompagnato da una politica che miri ad alterare la situazione a favore della resistenza siriana oppure ad un cambio di regime. È un'intervento che rispecchia un compromesso all'interno dell'amministrazione americana tra falchi e colombe.

Più che al popolo siriano, l'azione punitiva servirà agli stessi Stati Uniti per non perdere del tutto la propria credibilità nel mondo arabo già fortemente incrinata da Guantanamo, ed dal fallimento in Afghanistan, Iraq e Libia. Più che un intervento umanitario, sarà un'operazione di immagine, più retorica che politica, come ci ha abituato il presidente Obama. E così, il mondo occidentale continua a giocare sulla pelle del popolo siriano.