Mai avremmo potuto immaginare, nella infinita e drammatica comédie humaine squadernata dal naufragio del Concordia, con le sue nefandezze e le sue pagine straordinarie, mai avremmo creduto che quella catastrofe sarebbe diventata una metafora della nostra storia nazionale, che quei personaggi si sarebbero tramutati in maschere e simboli, che quel grido (auto)intercettato del comandante Gregorio De Falco al capitano Schettino avrebbe così rapidamente acquisito la sonorità accattivante e campionabile dello slogan, rimbalzando da un capo all’altro della rete.
Certo, come abbiamo già provato a dire, il gioco degli stereotipi rende caricaturale la realtà invece che spiegarla: tutti dovremmo rifuggire alla tentazione della semplificazione consolatoria, al gioco degli eroi buoni da opporre ai cattivi turpi, degli angeli che combattono contro i “Capitan Codardo”, che – quando esistono – non sono mai figli di una follia individuale, ma di un sistema che la rende possibile. Ma è altrettanto certo che, nello stesso momento in cui ci chiediamo quanti Schettino ci siano nelle nostre istituzioni, selezionati dall’Italia del demerito, quel grido diventa una bandiera. È vero che mentre si crocifigge il capitano in fuga (occultata oltre il limite della decenza) sulla scialuppa con i suoi ufficiali, nello stesso attimo in cui questa immagine diventa così mediatica da tramutarsi in un frammento della campagna per la corsa all’Eliseo (il ministro della Difesa usal’icona del capitano inetto contro Hollande) e in una clava con cui i quotidiani stranieri danno sfogo al loro sentimento anti-italiano e alla loro tentazione sciovinista, proprio in questo momento l’ululato di De Falco diventa il catalizzatore positivo dell’ “altra Italia”. “Vadabbordocazzo!”siamo noi, direbbe Francesco De Gregori.
È il paese meraviglioso degli abitanti del Giglio che corrono al soccorso, prima ancora che suonino le sirene degli allarmi. È l’Italia del parroco don Lorenzo che apre la Chiesa nella notte della tragedia. Del vicesindaco che porta aiuti, del commissario di bordo Manrico Giampredoni che sul ponte resta intrappolato sotto il frigorifero con la gamba fracassata perché ha cercato di salvare vite. È il sorriso timido di Giuseppe Girolamo, il batterista di bordo che già imbarcato lascia il posto in scialuppa a un bambino e che ora è disperso. È l’Italia di De Falco che giustamente si schermisce e dice a Il Tirreno: “Abbiamo fatto solo il nostro dovere, cioè portare a regime il soccorso”. Poi denuncia le omissioni e le bugie di Schettino, “il fatto che il comandante parlasse di guasto elettrico non tornava con l’invito ai passeggeri di indossare i giubbotti di salvataggio. Un comandante serio non può far preoccupare inutilmente i suoi passeggeri facendo loro indossare i giubbotti se non è necessario”. E subito dopo: “La Capitaneria è un’istituzione sana, bellissima, semplice: io sono innamorato del lavoro che faccio”.
Eppure mentre De Falco resta con i piedi a terra, il suo slogan da maestro involontario vola: diventa un top tweet di Twitter, l’immagine dell’istituzione che c’è, che vigila, e che non si accontenta di una versione di comodo. Se l’Italia cialtrona degli Schettino borbotta scuse inverosimili, infatti, quella dei De Falco la inchioda alle sue contraddizioni. Non ci dovrebbe essere nulla di eroico, in questo, se non che in questi tempi la normalità si trasfigura in eroismo. “
Vadabbordocazzo!”, infine, è un’altra immagine importante, la rottura di un altro falso stereotipo che in questi anni ci é stato propinato come verità di fede: é lo Stato che é più serio del Mercato, il decoro dell’istituzione marina contro la flottiglia low cost per abbattere le spese. É il richiamo alla regola, contro l’ubriacatura dell’arbitrio. Molti dicono: ma De Falco sapeva di essere registrato. È vero, ovviamente, ed è lui stesso che lo comunica al comandante della Concordia. Eppure non è l’imprecazione che rende bello quel documento, ma l’investigazione: l’uomo della Capitaneria (e questa è la parte più interessante del suo racconto) usa l’autorità per far cadere il castello di bugie. Non si fa abbindolare. Ce n’è in questo paese, di finti capitani, coraggiosi quasi mai, che dovrebbero scendere dalle scialuppe e obbedire a quell’ordine perentorio: “Percorra in senso inverso le scale di biscaggina!”. Il senso inverso – ovviamente – alla rotta della fuga.
Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2012
Certo, come abbiamo già provato a dire, il gioco degli stereotipi rende caricaturale la realtà invece che spiegarla: tutti dovremmo rifuggire alla tentazione della semplificazione consolatoria, al gioco degli eroi buoni da opporre ai cattivi turpi, degli angeli che combattono contro i “Capitan Codardo”, che – quando esistono – non sono mai figli di una follia individuale, ma di un sistema che la rende possibile. Ma è altrettanto certo che, nello stesso momento in cui ci chiediamo quanti Schettino ci siano nelle nostre istituzioni, selezionati dall’Italia del demerito, quel grido diventa una bandiera. È vero che mentre si crocifigge il capitano in fuga (occultata oltre il limite della decenza) sulla scialuppa con i suoi ufficiali, nello stesso attimo in cui questa immagine diventa così mediatica da tramutarsi in un frammento della campagna per la corsa all’Eliseo (il ministro della Difesa usal’icona del capitano inetto contro Hollande) e in una clava con cui i quotidiani stranieri danno sfogo al loro sentimento anti-italiano e alla loro tentazione sciovinista, proprio in questo momento l’ululato di De Falco diventa il catalizzatore positivo dell’ “altra Italia”. “Vadabbordocazzo!”siamo noi, direbbe Francesco De Gregori.
È il paese meraviglioso degli abitanti del Giglio che corrono al soccorso, prima ancora che suonino le sirene degli allarmi. È l’Italia del parroco don Lorenzo che apre la Chiesa nella notte della tragedia. Del vicesindaco che porta aiuti, del commissario di bordo Manrico Giampredoni che sul ponte resta intrappolato sotto il frigorifero con la gamba fracassata perché ha cercato di salvare vite. È il sorriso timido di Giuseppe Girolamo, il batterista di bordo che già imbarcato lascia il posto in scialuppa a un bambino e che ora è disperso. È l’Italia di De Falco che giustamente si schermisce e dice a Il Tirreno: “Abbiamo fatto solo il nostro dovere, cioè portare a regime il soccorso”. Poi denuncia le omissioni e le bugie di Schettino, “il fatto che il comandante parlasse di guasto elettrico non tornava con l’invito ai passeggeri di indossare i giubbotti di salvataggio. Un comandante serio non può far preoccupare inutilmente i suoi passeggeri facendo loro indossare i giubbotti se non è necessario”. E subito dopo: “La Capitaneria è un’istituzione sana, bellissima, semplice: io sono innamorato del lavoro che faccio”.
Eppure mentre De Falco resta con i piedi a terra, il suo slogan da maestro involontario vola: diventa un top tweet di Twitter, l’immagine dell’istituzione che c’è, che vigila, e che non si accontenta di una versione di comodo. Se l’Italia cialtrona degli Schettino borbotta scuse inverosimili, infatti, quella dei De Falco la inchioda alle sue contraddizioni. Non ci dovrebbe essere nulla di eroico, in questo, se non che in questi tempi la normalità si trasfigura in eroismo. “
Vadabbordocazzo!”, infine, è un’altra immagine importante, la rottura di un altro falso stereotipo che in questi anni ci é stato propinato come verità di fede: é lo Stato che é più serio del Mercato, il decoro dell’istituzione marina contro la flottiglia low cost per abbattere le spese. É il richiamo alla regola, contro l’ubriacatura dell’arbitrio. Molti dicono: ma De Falco sapeva di essere registrato. È vero, ovviamente, ed è lui stesso che lo comunica al comandante della Concordia. Eppure non è l’imprecazione che rende bello quel documento, ma l’investigazione: l’uomo della Capitaneria (e questa è la parte più interessante del suo racconto) usa l’autorità per far cadere il castello di bugie. Non si fa abbindolare. Ce n’è in questo paese, di finti capitani, coraggiosi quasi mai, che dovrebbero scendere dalle scialuppe e obbedire a quell’ordine perentorio: “Percorra in senso inverso le scale di biscaggina!”. Il senso inverso – ovviamente – alla rotta della fuga.
Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2012
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