Il capitalismo è indubbiamente “in crisi”, in Occidente, perché non riesce a mantenere le sue due promesse più grandi, ossia la capacità di autoregolarsi e di distribuire quote sempre crescenti di benessere. I liberisti non hanno mai nascosto il fatto che la distribuzione sarebbe stata iniqua, ma hanno promesso che, in qualche modo ed in misura crescente, una larga maggioranza avrebbe beneficiato di questo sistema (la famosa teoria dello sgocciolamento). Questo meccanismo si è inceppato. Tra l’altro, non è la prima volta che accade e, quando è accaduto in passato, se ne è usciti con guerre spaventose.

Apro una parentesi a scanso di equivoci: io non identifico il capitalismo con l’economia di mercato. Il capitalismo è una forma dell’economia di mercato, caratterizzata dal fatto che i governi sono sottoposti al potere di banche centrali a capitale privato o misto. Il capitalismo è quel sistema in cui si comprano e vendono soldi, si vendono prodotti che non si posseggono o addirittura non esistono (sono previsti come esistenti in futuro), e si comprano prodotti che esistono, ma con soldi che non si hanno. Questo sistema – che privilegia l’economia virtuale rispetto a quella reale – ha come effetto finale la concentrazione della ricchezza in poche mani.

Il motivo per cui a livello politico non si affronta il problema dei problemi (il capitalismo è fallito?), è che non si vede all’orizzonte un’alternativa credibile. I compagni comunisti sono bravissimi quando spiegano cosa non va nel capitalismo e come si abbatte il sistema (la marxiana negazione della negazione), ma non dicono più in positivo per fare cosa. Un tempo dicevano: «facciamo come in Russia». Oggi questo appello non infiamma i cuori. È noto che il sistema sovietico, basato su centralismo e statalismo, non ha mantenuto le promesse e ha fatto anch’esso bancarotta.

Tuttavia, anche i socialisti devono ammettere che lo stesso modello riformista è in crisi. L’idea che i capitalisti fossero pecore da tosare, ossia che si potesse ridistribuire ricchezza tra i meno abbienti attraverso l’imposizione tributaria progressiva, ha fatto il suo tempo. Se si alzano le tasse, o le si fanno pagare davvero, le imprese delocalizzano. Oggi la leva fiscale funziona in senso antisocialista: i governi tosano lavoratori e pensionati, a beneficio delle banche e del grande capitale. Il modello riformista ha funzionato bene finché c’era l’URSS, ovvero finché i gruppi di potere occidentali avevano una pistola puntata alla tempia. E perciò accoglievano le richieste dei riformisti ad alzare i salari e finanziare lo stato sociale. Venuta a mancare la minaccia esterna, hanno tolto gradualmente quanto avevano prima concesso. Un punto su cui Marx aveva ragione è proprio questo: i capitalisti non concederanno mai nulla perché è giustofarlo, da un punto di vista morale, e nemmeno perché è razionale farlo, da un punto di vista tecnico – ossia al fine di conservare il sistema. Guarderanno solo al tornaconto immediato, portando il sistema alla rovina.

Ammesso questo, resta il fatto che la ricetta marx-leninista di statizzazione integrale dell’economia è fuori dal tempo, anche considerando che il terzo mondo e il primo si stanno invertendo le parti. Se la diagnosi di Marx è in parte corretta (il tarlo che distrugge il capitalismo dall’interno è il plusvalore), la terapia sembra peggiore del male. E allora cosa resta? Resta quella tradizione socialista, troppo presto liquidata come utopica, che è alternativa rispetto al capitalismo e al comunismo, ma anche diversa dal riformismo socialdemocratico del dopoguerra. Proverò a sintetizzare in poche parole il modello che si può distillare dalle tante pagine scritte da Owen, Proudhon, Fourier, ed altri. Per eliminare il plusvalore non è necessario eliminare l’economia di mercato, la competizione tra imprese. Si può infatti risolvere il problema passando gradualmente dal lavoro salariato al lavoro associato, o libero. L’occasione storica si presenta proprio ora: gli stabilimenti che chiudono per la crisi potrebbero essere dati in gestione diretta agli operai, finanziando l’operazione con i soldi della cassa integrazione e dei sussidi di disoccupazione.

Il mondo “ideale” del socialismo libertario è un mondo in cui la produzione è affidata a lavoratori autonomi e società cooperative liberamente costituite, mentre lo Stato (la collettività) si occupa solo del sistema creditizio e monetario, della sicurezza, delle infrastrutture. È un mondo in cui si elimina lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, senza trasformare la società in una caserma. Chiunque volesse allargare la propria azienda dovrebbe cercare soci, non dipendenti. Sicuramente in una società siffatta non ci sarebbe uguaglianza economica, verrebbe ancora premiato il talento, ma non si dimentichi che lo stesso Marx liquidava la richiesta operaia di pari emolumenti come un’istanza di “rozzo egualitarismo”, segno di quanto i proletari fossero ancora simili ai borghesi in fatto di invidia e avidità.

Ecco allora cosa si potrebbe rispondere a chi dice: “D’accordo, il capitalismo è un pessimo sistema, ma c’è un’alternativa?”. L’alternativa è il socialismo libertario, l’autogestione. Un’utopia? Sicuramente. Però, considerato che anche gli altri sistemi hanno fallito il test della realtà, si può almeno convenire che si tratta di un’idealità tra le idealità. Certamente non è un sistema che si può costruire nottetempo, ma sapere dove si vuole andare sarebbe già un grosso passo avanti.