Le assicurazioni italiane sono le più care d'Europa e questo lo sapevamo già, ma l'Isvap ha reso noto la reale differenza tra le nostre Rc auto e quelle del resto del continente relative all'anno 2010. La media italiana si attesta a 950 euro l'anno, mentre per il più caro degli altri Paesi europei, la Spagna, la spesa si ferma solamente a 229 euro l'anno: avete letto bene, il più "caro" degli stati d'Europa. Altri Paesi infatti, come Germania e Francia si fermano rispettivamente a 222 e 172 euro annuali. Cioè praticamente il nostro costo va oltre il 450% in più della vicina francese: un prezzo cinque volte superiore. E le cose non migliorano se ci confrontiamo con Paesi più "esosi", come appunto la Spagna o la Germania. Rispetto a questi noi italiani spendiamo comunque quattro volte tanto.
Le assicurazioni italiane si barricano sempre dietro la solita solfa dell'alto numero di sinistri, ma in realtà, su questo punto, confrontandoci con i sinistri fatti in media dai guidatori europei siamo perfettamente in linea; allora perchè "subiamo" questi premi così alti?

Non sembrano destinati a fermarsi nemmeno gli aumenti dei prezzi raccomandati sulla rete carburanti, con ritocchi che si ripercuotono inesorabilmente sul territorio. Oggi a muoversi sono state Esso (+0,5 cent euro/litro solo sulla benzina), Q8 (0,3 sulla verde e 0,5 sul diesel), Tamoil (0,5 solo sulla benzina) e TotalErg (0,5 su entrambi i prodotti). In media nazionale i prezzi praticati sono a 1,82 per la benzina e oltre 1,75 per il diesel ma le punte in alcune aree del Paese superano 1,92 per la verde (Centro) e sono prossime a 1,79 per il diesel (Sud). In questo quadro, le no logo provano ma fanno fatica a scendere. È quanto emerge dal consueto monitoraggio di quotidianoenergia.it in un campione di stazioni di servizio che rappresenta la situazione nazionale per Check-Up Prezzi QE. Più nel dettaglio, a livello Paese, il prezzo medio praticato della benzina (in modalità servito) va oggi dall'1,811 euro/litro degli impianti Esso all'1,820 di quelli Tamoil (no-logo a 1,750). Per il diesel si passa dall'1,749 euro/litro sempre di Esso all'1,755 di Q8 (no-logo a 1,654). Il Gpl è tra lo 0,802 euro/litro di Esso e Shell e lo 0,808 di Q8 (no-logo a 0,762). Anche stando alla rilevazione di Staffetta Quotidiana, inoltre, nonostante il (lieve) calo dei prezzi internazionali registrato venerdì nel mercato del Mediterraneo, oggi i prezzi alla pompa continuano a manifestare aggiustamenti al rialzo. L'onda lunga dei record delle quotazioni bruciati la scorsa settimana produce ancora i suoi effetti. Ancora in aumento le medie ponderate nazionali dei prezzi tra i diversi marchi in modalità servito: questa mattina la benzina è a 1,813 euro/litro (+0,2 centesimi), il gasolio a 1,755 (+0,1 centesimi). A determinare l'ennesimo rialzo sono i ritocchi apportati questa mattina ai listini da parte di Esso, Tamoil e TotalErg. Per la compagnia a stelle strisce, che resta comunque di gran lunga al di sotto della media di mercato, abbiamo un rialzo di 0,4 centesimi sulla verde a 1,804 euro/litro e di 0,3 centesimi sul diesel a 1,750 euro/litro. Per la compagnia libica l'aumento è solo sulla benzina, di 0,5 centesimi a 1,822 euro/litro. Infine, TotalErg: +0,5 centesimi sulla benzina a 1,822 euro/litro, +0,5 centesimi sul diesel a 1,762 euro/litro. I prezzi medi della benzina superano ormai quota 1,8 euro/litro in tutte le Regioni, fatta eccezione per l'Emilia-Romagna (1,790), il Friuli-Venezia Giulia (1,797), la Lombardia (1,786), la Sardegna (1,796) e il Veneto (1,784). Il primato spetta sempre alle Marche, dove, anche grazie all'addizionale regionale di 9,17 centesimi (Iva inclusa), il prezzo medio della verde si attesta questa mattina a 1,889 euro/litro. Fermi i prezzi del metano (media nazionale a 0,95 euro/kg, minima a 0,84, massima a 1,15) e del Gpl (media nazionale a 0,814 euro/litro).

Solo 2 esempi di lobby in settori strategici della economia moderna,  nemmeno sfiorate dalle "finte" liberalizzazioni di questo governo fantoccio.  L’unica cosa veramente liberalizzata è la propaganda. Un decreto partito con molte previsioni dirigistiche e, in qualche caso, tendenti a maggiori centralizzazioni, è stato raccontato come fosse l’avvento del libero mercato. Un Parlamento acquiescente e poco capace di essere rappresentante dell’elettorato è stato dipinto come combattente al fianco delle lobbies. Siamo arrivati al punto che i rilievi del Quirinale non si dirigono più contro la disomogeneità dei decreti, ma contro gli emendamenti parlamentari. La stessa presenza dei gruppi di pressione è stata tradotta da naturale e legittima manifestazione della democrazia in una specie di suo stupro. Il tutto producendo un imbevibile frullato in cui non si distinguono più le questioni di metodo da quelle di merito. Il metodo funziona così: il governo presenta un decreto legge (qualsiasi), ovviamente controfirmato da un presidente della Repubblica che non è chiamato a discuterne il contenuto e la costituzionalità, ma a vagliarne l’eventuale danno agli equilibri costituzionali (giacché il decreto è immediatamente vigente, anche in attesa della conversione); il Parlamento lo discute e, prima di farne una legge, quindi di convertirlo, può cambiarlo; un Parlamento che non discute e non emenda lo abbiamo già avuto, per venti anni, e non ne sentiamo alcuna nostalgia; nel corso dei lavori parlamentari i gruppi d’interesse cercano di farsi valere, come avviene in tutte le democrazie che siano tali, spettando al Parlamento accettare o meno i loro suggerimenti; il lobbismo sta alla corruzione come San Valentino alle orge sadomaso; il governo può accettare gli emendamenti oppure opporsi a quelli, apponendo il voto di fiducia; se perde quella partita se ne va, se la vince tira dritto.

Il merito funziona in modo diverso: fermo restando il rispetto delle leggi e delle procedure parlamentari, ciascuno può sostenere quello che gli pare, salvo il diritto degli altri di metterlo in minoranza; se una determinata opinione, o un determinato interesse, non può esprimersi o è considerato improponibile, se viene messo a tacere, vuol dire che è già morto il Parlamento; i lobbisti rappresentano quegli interessi, spiegandone le ragioni ai legislatori, in un sistema funzionante ci sono lobbisti opposti, che tirano in direzioni diverse, sicché accomunarli in un medesimo lavoro è semplicemente demenziale; il risultato è sottoposto al giudizio degli elettori. Mischiare le cose e dire che una determinata cosa è sbagliata perché c’erano i lobbisti a sostenerla significa non sapere dove sta di casa la democrazia. Immaginare che i decreti non possano essere discussi, e chiamare ‘assalto alla diligenza’ ogni emendamento, significa essere inconsapevoli epigoni di Churchill, il quale sosteneva: la democrazia è bella quando a governare siamo in due e l’altro è a casa malato. Veniamo alla sostanza: le liberalizzazioni governative sarebbero state divelte in tre casi: taxi, farmacie e professionisti. Peccato che non c’erano, sicché si fa fatica a svellerle. Nel caso dei taxi il governo propose l’ennesima autorità nazionale, chiamata a decidere il numero dei taxi necessari in ogni borgo, in modo da sottrarre i sindaci dalla pressione della lobby col tassametro. Non era una liberalizzazione (lo sarebbe stata dire che chiunque lo voglia, nel rispetto dei requisiti, può esercitare quella professione), ma un delirio centralistico. Ragionando in questo modo si liberino i sindaci anche dei loro elettori e si chiudano i municipi. Si risparmia, almeno. Risultato: la decisione spetta ai sindaci, com’era ovvio. Per le farmacie non era prevista alcuna liberalizzazione, ma un aumento delle medesime. E’ solo cambiato il parametro per deciderne il numero. Capirai! Sarebbe stata una liberalizzazione dire: qualsiasi farmacista apra una farmacia sappia di dovere rispettare i seguenti orari di apertura (non di chiusura), perché vendere medicine è un servizio al cittadino, oltre che un lavoro, il resto è lasciato al rischio della libera iniziativa. Per i professionisti, avvocati e notai in testa, la liberalizzazione non può consistere nell’aumento del loro numero, che sono già una marea, ma della concorrenza fra loro, il che ha a che vedere con tariffe, pubblicità e società miste, non con i preventivi scritti (e vorrei sapere come fa un penalista a presentarne uno, nel Paese dei processi decennali). I correttivi parlamentari relativi a banche, benzinai e assicurazioni nulla hanno a che vedere con le liberalizzazioni (per le assicurazioni non c’è l’agente plurimandatario e si sono aumentate le pene per le frodi, che se questa è una liberalizzazione io sono una ballerina Bluebell). In mancanza di tutto ciò ci si butta sulla propaganda: il governo volle liberalizzare, ma il Parlamento glielo impedì. Il che, sia chiaro, lo scrivo a difesa del Parlamento e della sua funzione, non di questi parlamentari, che se avessero mezza idea del loro dovere le liberalizzazioni, quelle vere, le avrebbero già fatte da lustri.