Fallisce il negoziato sul bilancio Ue a Bruxelles. I lavori del Consiglio europeo dedicato al quadro finanziario per il 2014/2020 non hanno portato infatti alcuna intesa. Lo confermano fonti della presidenza cipriota dell'Unione europea. I 27 non sono dunque riusciti a trovare un accordo sul quadro finanziario pluriennale e sulla nuova proposta presentata dal presidente Herman Van Rompuy hanno deciso di riaggiornarsi nei prossimi mesi.
Dell'argomento non si discuterà al Consiglio di dicembre, che sarà dedicato all'Unione bancaria e al futuro dell'Unione economica e monetaria, ma ne verrà probabilmente convocato uno all'inizio dell'anno prossimo. Per deliberare sul pacchetto, che riguarda il periodo 2014/2020, c'è tempo fino a marzo. Già la prossima settimana, comunque, il presidente Van Rompuy ricomincerà a incontrare i diversi leader in una serie di incontri bilaterali.
Poco prima che la riunione fosse conclusa, fonti italiane avevano definito preferibile un rinvio a una rottura con il Regno Unito da una parte e il resto dell'Unione dall'altra. "E' meno drammatico rinviare l'accordo sul bilancio" all'inizio del prossimo anno, è stato detto, che "fare a 26", ovvero senza la Gran Bretagna, che resta la più intransigente sull'ultima proposta di Van Rompuy.


"Andando a 26 - osservano ancora - le conseguenze sarebbero più dannose che un rinvio di poco tempo" per arrivare all'intesa. Secondo fonti diplomatiche, in questa fase l'atteggiamento della Germania è stato un po' meno duro di quello avuto, oltre che da Londra, anche dall'Aja e da Stoccolma, dimostrandosi "costruttiva e disponibile" rispetto alla bozza presentata la notte scorsa.
Ieri sera Mario Monti lasciando il palazzo del Consiglio Ue, aveva ribadito che l'Italia non avrebbe accettato ''soluzioni per noi non accettabili''; ''vogliamo e dobbiamo rimontare posizioni'', quella sul bilancio "è una decisione che va presa all'unanimità e occorre che tutti i paesi siano d'accordo. Se l'Italia si ritenesse significativamente insoddisfatta, non esiterebbe a non votare a favore, quindi a votare contro, così come farebbero altri paesi".
Da parte sua il presidente francese François Hollande ha affermato che nel dossier agricoltura il taglio previsto è per Parigi ''ancora troppo importante'', e ha replicato duramente alla richiesta britannica di mantenere gli sconti attuali: "Non possiamo accettare che alcuni fra i paesi più ricchi dell'Unione chiedano ancora sconti, mentre la Francia non ne chiede". Per il premier britannico David Cameron i tagli sono, invece, ancora insufficienti.


E infatti L’allontanamento della Gran Bretagna dall’Unione europea sembra essere l’unica argomentazione che metta in accordo il premier David Cameron con maggioranza parlamentare, opposizione ed elettorato, a dispetto di una grave crisi politica interna.

In un recente sondaggio condotto da Opinium Reasearch LLP/Observer e pubblicato suThe Observer di domenica scorsa, più della metà dei cittadini britannici si dichiara favorevole all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Il grafico parla chiaro: in caso di referendum immediato sull’uscita del regno di Sua maestà nell’Ue, il 56% deibritons voterebbe sì, contro un 30% filo-europeista e un 14% di indecisi. Che gli inglesi non siano mai stati accaniti sostenitori dell’Unione europea non è un segreto, ma ora sembra avere maggiore consistenza la “profonda preoccupazione” sul risultato dell’eventuale referendum espressa dall’ex premier Tony Blair in agosto sul Die Zeit.

In un momento di drammatico inasprimento del sentimento anti-europeista, credi politici opposti scompaio dinanzi al comune nemico europeo. Il ministro Tory Kenneth Clarke e il leader laburista Ed Miliband sono sembrati d’accordo nel mettere in dubbio l’adesione all’Europa, ma soprattutto nel criticare l’approccio poco pratico e aggressivo di Cameron in materia di budget europeo. Al premier si chiede una missione quasi impossibile al consiglio europeo del 22-23 novembre: congelare il piano di spesa 2014-2020 accettando solo aumenti proporzionali al livello d’inflazione, contro la richiesta di aumento del budget del 5% voluto da Bruxelles.

Tempi difficili quindi per il primo ministro, che deve decidere se tentare una mediazione con i paesi membri dell’Ue o sottostare al ricatto di Westminster per continuare a godere della maggioranza parlamentare. Proprio lo scorso 31 ottobre il governo di Cameron ha subìto un ammutinamento: il provvedimento sul budget europeo è stato battuto alla camera bassa per 307 a 294 da una coalizione formata da laburisti e dissidenti conservatori euroscettici. Motivo della disputa il suddetto incremento del 5-6.8% del budget europeo.

In termini economici tale aumento si tradurrebbe in un versamento finanziario nelle casse di Bruxelles di oltre 500 milioni di sterline all’anno tra il 2014 e il 2020. In condizioni economiche normali è una cifra che non costituirebbe un problema. Ma dopo l’attuazione di impopolari politiche di austerità – come il congelamento dei benefits e i tagli al bilancio – le cose cambiano. Ci sarebbero forti difficoltà e un pessimo ritorno d’immagine nel giustificare alla popolazione degli esborsi tanto onerosi verso l’ipercriticata e ‘spendacciona’ Europa. In una dichiarazione ufficiale Cameron ha definito “ridicola” la richiesta della Commissione e ha affermato che l’Unione deve “smetterla di mettere le mani nelle tasche dei propri cittadini attraverso il budget europeo ”, anche perché “ gran parte dei fondi europei non sono ben sfruttati” .

Ulteriore obiettivo del premier, con parziale sostegno del cancelliere tedesco Angela Merkel, sarebbe quello di adottare un doppio piano di spesa per l’Europa, ossia un budget per i paesi più ricchi e un budget differente per quelli più poveri o sull’orlo della bancarotta. Sir Jon Cunliffe, ambasciatore del Regno Unito presso l’Ue, ha poi proposto tagli su stipendi e benefit degli euroburocrati come ulteriore misura di limitazione dei costi dell’Unione. Recentissimi rumors brussellesi dicono che gli alti funzionari europei sarebbero disposti a trattare su questo punto pur di avere l’ok di Londra sul budget pluriennale.

Il bilancio dell’Unione deve essere approvato all’unanimità dai 27 paesi; un accordo preso con un solo voto contrario significherebbe approvare il bilancio solo per un anno piuttosto che sette. Come ha dimostrato l’opposizione britannica al fiscal compact, mantenere rigidità nei confronti di Bruxelles permetterebbe a Cameron di riguadagnare popolarità nell’elettorato e stabilità all’interno del partito conservatore. La sensazione è che però questa volta il premier farà fatica ad ottenere il congelamento del budget (mentre una sua riduzione è del tutto fuori discussione). Il massimo a cui può ambire è non avere qualsiasi aumento ipotizzato e richiesto dall’Europa.

Tanto per avanzare un’ipotesi: se ‘Mr. No’ Cameron mandasse nuovamente all’aria un accordo che richiede l’unanimità, l’Unione europea potrebbe passare al contrattacco. Bruxelles potrebbe adottare misure speciali per far sì che i contributi britannici da versare siano ben più alti del solo tasso di inflazione. I contribuenti di Sua maestà pagherebbero così molto di più per il fallimento del loro primo ministro.

In questi giorni Cameron appare piuttosto debole a livello interno perché soggiogato dal proprio parlamento e preoccupato dalla perdita di consensi elettorali in vista delle elezioni del 2015. Cameron è confuso sul da farsi anche in politica estera. Indeciso se considerarsi o meno parte dell’Ue, alterna nei confronti di quest’ultima toni aspri legati ai costi ad aperture di convenienza legate ai benefici. È un chiaro esempio del secondo caso il riferimento a un accordo economico concluso subito dopo la rielezione di Barack Obama tra l’Unione europea e gli Stati Uniti.

Cameron, con le sue innumerevoli e sgraziate ‘inversioni a U’ si trova in una pericolosissima posizione, lasciato solo anche dal suo governo che non interviene per chiarire quale sia lo scenario più probabile delle future relazioni con Bruxelles.

Il rischio che si corre è che la crisi politica inglese si ripercuota sugli equilibri europei e che David Cameron condanni la propria nazione ad un isolazionismo suicida. Che Cameron consideri che quasi il 50% dell'export inglese è verso Paesi UE e che una eventuale uscita dall'Unione lo costringerebbe alla rinegoziazione di tutti i trattati commerciali in essere.