L’ ultima volta che si videro per discutere di affari - era settembre dell’anno scorso - a Palazzo Chigi c’erano ancora Bossi e Berlusconi.

L’Italia era nel pieno di una crisi finanziaria e nelle grandi banche internazionali c’era chi scommetteva sul default italiano.

Quando si seppe che Giulio Tremonti aveva incontrato i vertici del fondo sovrano di Pechino gli alleati leghisti non la presero bene. «Non vorrei che dietro alla disponibilità dei cinesi a comprare i nostri titoli si celi una polpetta avvelenata», sentenziò l’allora capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni. Per mettere di cattivo umore il governo di Pechino sarebbe bastato molto meno.

Superare le conseguenze di quel mezzo incidente diplomatico è stato uno dei crucci di Mario Monti. A fine marzo, di fronte a Wen Jabao e all’Assemblea del popolo, il premier ha chiuso il caso: «L’Italia vede nella Cina un importantissimo partner strategico e intende rafforzare il più possibile la già ottima collaborazione». A due settimane da quell’incontro, senza clamore, Vittorio Grilli ieri è volato nella capitale cinese per due giorni fitti di incontri. Attorno all’agenda c’è uno stretto riserbo, ma incontrerà di certo il ministro delle Finanze Xie Xuren, il governatore della Banca centrale Zhou Xiaochuan e i vertici del fondo sovrano, la China Investment Corporation.

Lo spread dei titoli italiani sui mercati non è quello di sei mesi fa, ma l’interesse degli investitori esteri verso i Btp è ancora basso. Gli ultimi dati disponibili della Banca per i regolamenti internazionali dicono che a fine 2011 erano stati sottoscritti 715 miliardi di dollari, cento in meno degli 812 di fine ottobre.

Se prima dell’estate più della metà del nostro debito - circa 1900 miliardi di euro - erano fuori dei nostri confini, ora non è più così. Le due aste triennali da 500 miliardi della Banca centrale europea hanno messo in circolo liquidità e dato fiato agli acquisti delle banche italiane, non ancora di quelle straniere. Le indiscrezioni che circolano sui mercati dicono che qualche fondo speculativo ha ripreso a scommettere sul lungo termine, e però restiamo al di sotto dei numeri di un anno fa. Le preoccupazioni su cosa accadrà nei prossimi giorni a Parigi e all’Aia fanno il resto. Insomma, per il governo riaprire il dialogo con Pechino è più urgente che mai.

I cinesi sono del resto preoccupati per l’andamento del loro Pil: nel primo trimestre di quest’anno l’economia è cresciuta «solo» dell’8,1%, il tasso più basso degli ultimi tre anni. L’obiettivo è spingere sugli investimenti esteri: l’interscambio con l’Italia oggi vale 16 miliardi di dollari l’anno. A gennaio la holding Shig ha investito nei cantieri Ferretti, ma la sfida è un importante investimento industriale.

L’hanno fatto in alcuni dei Paesi dell’ex blocco sovietico, in Portogallo e in Grecia. A settembre si vociferò di un interesse ad acquistare quote di Eni ed Enel, ma la loro vera vocazione è nella cantieristica e nelle infrastrutture. «Se dipendesse da loro il Ponte sullo Stretto sarebbe già in funzione», spiega un importante mediatore italiano che vive a Pechino. Nel frattempo puntano sui porti italiani: a fine marzo il viceministro dell’Economia è stato al porto di Augusta, il quinto in Italia e, secondo i cinesi, un potenziale snodo per l’intero mediterraneo.