L'era di Berlusconi e del “non luogo Italia”, può finire solo se ci sentiremo parte di una nuova repubblica fondata sull' idea di cittadinanza

La crisi globale che persiste e che fa preoccupare persino Bernanke, trova nel nostro Paese una declinazione del tutto particolare. Non si tratta di specificità italiana né di parentesi più o meno crociane con cui spesso si è tentato di interpretare la biografia nazionale. Si tratta di leggere l’onnipotenza e il crepuscolo berlusconiano alla luce del ventennio (l’ennesimo) che si va compiendo. Un ventennio che ha radicalmente cambiato, in maniera definitiva, il volto e la composizione sociale del Paese. Un ventennio che ha stravolto antropologicamente la sfera del vivente sussumendo stili di vita, comportamenti, mobilità sociale, linguaggi, parole. Una possente rivoluzione semantica che ha dato dignità e forza all’Italia peggiore mettendo a nudo le fragilità e le ipocrisie di una inconsistente borghesia nazionale. Ma quanto accaduto in Italia non è il residuo medievale di un Paese che va alla malora, ma il preludio di feroce contemporaneità che sta attraversando l’intera Europa e non solo.

La specificità italiana sta nella congiuntura che ci consegna la somma di una serie di crisi: economica, occupazionale, ambientale, di modello di sviluppo, di illegalità diffusa, di democrazia. Tante piccole guerre civili molecolari che si combattono ogni giorno aumentando distanze e frammentazione. Nord contro sud, ricchi contro poveri, nativi contro migranti, anziani contro giovani, lavoratori dipendenti contro precari, imprenditori contro lavoratori, Capitale contro il lavoro, uomini contro le donne, uomini e donne contro i gay, cattolici contro mussulmani.

E tutti insieme contro i Rom.

Una guerra civile asimmetrica, dove la violenza per la conquista di quote di cittadinanza e benessere è esclusivo appannaggio dei soggetti più forti a danno dei più deboli. Anche in questo senso siamo dentro uno stravolgimento senza precedenti. I fuochi e i forconi sono mossi dal nord, dai ricchi, dai nativi, dagli anziani, dai lavoratori dipendenti, dagli imprenditori, dagli uomini, dal Capitale, dai cattolici ognuno contro le loro specifiche controparti. Rivolte just in time, striscianti pogrom quotidiani organizzati unicamente per togliere a chi ha meno. Meno potere, salario, diritti, aria per respirare. Questo è accaduto nel nostro Paese negli ultimi venti anni, questo continua ad accadere. In Italia e anche in Europa.

Una crisi di sistema senza precedenti per la nostra Repubblica. Una crisi che somma le dinamiche globali con quelle locali determinando una gigantesca sottrazione. Sottrazione di senso, di narrazione collettiva, di futuro.

Quando si parla di crisi democratica e di sistema si intende tutto questo, rafforzato dalla velocità che il governo Berlusconi ha impresso alla deriva in cui siamo immersi. Se invece qualcuno allude esclusivamente al sistema elettorale e alle violazioni della Costituzione continueremo a praticare la più grande delle rimozioni. La Costituzione materiale di un Paese è fortemente connessa alla materialità dei rapporti di forza tra chi ha e chi non ha. Semplice e lineare, lo scriveva già nel 1956 Pietro Calamandrei denunciando lo scivolamento e la rottura dell’equilibrio raggiunto pochi anni prima.

Non si può guardare allo stravolgimento in atto con gli occhi rivolti al passato. Tra la prima Repubblica di Moro Andreotti Cossiga e la seconda di Berlusconi noi dovremmo scegliere la terza. Dovrebbe essere il campo plurale delle sinistre a proporre un cambio di passo, cogliendo la drammaticità del momento e il disincanto che attraversa lo stato d’animo di milioni di cittadini italiani.

Il punto delicato della discussione è proprio sulla declinazione del concetto di crisi. Viene in mente quello che de Gaulle e gli estensori della Quinta Repubblica francese sembravano aver compreso oltre cinquanta anni fa e quello che la classe politica francese nella sua interezza (dunque anche strenui oppositori come Mitterrand) ha mostrato di aver metabolizzato è che di fronte ad una crisi di sistema è indispensabile affrontare il più vasto problema della legittimazione o rilegittimazione della classe politica e delle sue istituzioni.

Per questo è determinante ragionare guardando avanti affrontando in maniera radicale i nodi che ci si pongono innanzi.

Una nuova Repubblica che sappia allargare la sfera della partecipazione democratica dei singoli e che sappia investire sul ruolo e la responsabilità dei corpi intermedi. Una nuova Repubblica fondata sulle comunità locali e che scelga l’Europa come orizzonte politico. Una Repubblica capace di immaginare un welfare connesso alla cittadinanza (né alla famiglia, né al lavoro, né allo jus sanguinis) che punti alle politiche di inclusione a partire dal reddito di cittadinanza come strumento capace di combattere schiavitù e lavoro povero. Una Repubblica che sappia ridisegnare un modello di sviluppo fondato sulla riconversione ecologica, da Pomigliano alla bottega di prossimità. Una Repubblica che sappia ridare senso, forza e capacità di contrattazione sociale alla parola lavoro. Una Repubblica capace di narrazione, che sappia aprire una discussione seria sul ruolo che l’Italia saprà svolgere nei nuovi scenari globali.

Non si esce dal ventennio berlusconiano con la resistenza o con le scorciatoie politiciste e le manovre di Palazzo.

Si esce dal ventennio con il racconto di un'altra Italia, con la valorizzazione di esperienze e virtuosismi già in essere, si esce dando coraggio a tutti coloro che la guerra civile molecolare l’hanno subita e persa ripetutamente a partire da quel lontano autunno 1980.

Un moto di popolo che potrebbe avere dalle primarie il suo innesco naturale. Un moto di popolo che va sollecitato con coraggio, senza precostituirne gli esiti.

Più che leggere il dibattito prevalente nel centro sinistra sulle leggi elettorali e i cerchi concentrici delle alleanze sarebbe molto meglio seguire Jean Claude Izzo nella sua volontà di essere Chourmo contro la logica dei funzionari del male minore.

Chourmo come appartenenza, orgoglio, fedeltà, valori primari. Chourmo inteso come volontà di immischiarsi, di esserci e farsi carico. Di buttarsi nella mischia senza paracadute.

Scrive Izzo pensando Chourmo, “solo per essere fedele alla mia giovinezza. Prima di diventare vecchio definitivamente. Perché tutti invecchiamo, per le nostre indifferenze, le nostre rinunce, le nostre vigliaccherie. E per la disperazione di sapere tutto questo”.

Può capitare che per i medesimi motivi, per non essere più un progetto collettivo, per meschinità, per la prevalenza di lobby e interessi privati, per calcoli elettorali, possa invecchiare una Repubblica e persino una Costituzione.

Ma tutto questo in Italia è già accaduto. Certo ci può dare addirittura nostalgia l’Italia dei primi anni sessanta, l’Italia del piano casa Fanfani, delle autostrade, della nazionalizzazione dell’energia, di Enrico Mattei e la sua spregiudicata ricerca di autonomia per il Paese, l’Italia della Genova antifascista, di porta san Paolo e piazza Statuto.

Appunto fotografie sbiadite, tempi lontani, vissuti come archeologia industriale da esporre nel salotto buono. Nulla che possa aiutarci a capire i compiti dell’oggi. Negli ultimi trenta anni, in Italia e nel mondo, c’è stata un gigantesco spostamento della ricchezza da chi possiede meno verso chi possiede di più. Il salario e il lavoro sono state le vittime sacrificali di questa modernizzazione senza modernità. Nel mondo come a Pomigliano dove è stata stracciata ancora una volta la Carta costituzionale ma soprattutto è stato umiliato il lavoro sottoposto a ritmi e produttività sempre più incensanti a parità di salario ed è stata proposta la mensa a scorrimento (cioè a fine turno quando cioè chiunque sano di mente scappa dalla fabbrica). La politica e i media su cosa si sono accaniti? Non sull’umiliazione e la violazione dell’integrità del vivente, non sul piano industriale farsa della Fiat, ma sull’assenteismo di lavoratori che guadagnano novecento euro al mese in quelle condizioni di lavoro, demotivati perché esclusi dalla partecipazione ad un progetto industriale che non esiste e spesso in cassaintegrazione. Una classe dirigente di miserabili detiene oggi le chiavi di casa del Paese.

Dobbiamo provare ad immaginare altro, senza deliri estremistici ma cercando di entrare in sintonia con chi la guerra civile l’ha subita e persa.

Dobbiamo provare ad immaginare il profilo di una nuova Repubblica capace di ritessere una speranza collettiva.

Questo il punto di partenza di Grillo e del suo modello "rompi partitocrazia", fondato su una democrazia rappresentativa votata dal basso e sintesi di una comune idea di democrazia, fondamento ed espressione di individualità distinte che trovano sinergie compatibili nel perseguimento condiviso di una libertà collettiva scevra da clientelismi, rendite di posizione, centri di potere, bieco asservimento a lobby, corporazioni, ideologie estinte.

I dirigenti del Partito Democratico italiano, sottovalutando la portata e la grandezza di una simile idea, hanno commentato i sondaggi favorevoli a ridosso delle votazioni con una frase tanto sbagliata quanto profetica: “La Terza Repubblica è cominciata”. Quando è stata resa pubblica la prima proiezione di voto, errata ma comunque fatidica, ed è stato chiaro che la sinistra non avrebbe ottenuto la maggioranza necessaria al Senato, i fondatori della nuova Repubblica si sono nascosti e non sono più ricomparsi. L’ennesimo fallimento del centrosinistra governato nell’ombra da Massimo d’Alema, stalinista nell’anima, mette l’Italia e l’Europa in una situazione molto difficile. La Terza Repubblica è iniziata davvero, ma la chiave del futuro non è né nelle mani del pacato e ultraconservatore PD, incapace di proporre di questi tempi anche una misera legge che regolamenti le coppie di fatto, né in quelle dell’eterno e indecente bunga bunga del fornicatore di voti, Silvio Berlusconi.

Come successe negli anni Venti del secolo scorso con l’ascesa del fascismo, l’inesauribile laboratorio politico italiano ha partorito una novità assoluta in un’epoca di piena crisi delle democrazie europee: gli indignati, giovani ma non solo, hanno preso possesso del parlamento tramite il voto. Di fronte a questo voto trasversale, che invoca pulizia e trasparenza a colpi di tweet e megafono, il comico Beppe Grillo è diventato un capopopolo postmoderno e internauta che deciderà le sorti del paese e del continente. Bollare il suo movimento come un mero fenomeno populista è una semplificazione inutile. La politica dei partiti nata dopo la Seconda Guerra Mondiale sta morendo, dietro al diktat ultraliberale che la sostiene oggi, e gli italiani, culla del diritto, della bella vita e dell’arte, lo hanno capito come al solito prima di chiunque altro.

Il problema di legittimità di cui soffre la politica decisa da Berlino e Bruxelles si è manifestato in tutta la sua crudezza. Non si tratta più di frenare gli indignati e l’indistinta antipolitica, perchè la politica vera oggi è indifendibile. Urge una revisione delle cause che danno origine a questo movimento. Angela Merkel minacciò di cacciare la Grecia dall’Euro per dare l’esempio, e ha imposto a greci, italiani, portoghesi e spagnoli un regime di austerità insopportabile che ha reso i cittadini schiavi senza futuro e con sempre meno diritti. Il grido che viene dall’Italia è solo il primo sintomo di una dissidenza massiccia. Basta pensare a cosa succederebbe in Spagna se si votasse domani. Credere che una grande coalizione tra i dinosauri Berlusconi e D’Alema sia la soluzione a questa disfunzione europea è una chimera senza senso. E’ giunta l’ora dei grillini. Governando per decreto a favore delle banche, delle imprese e dell’élite, e lasciando i giovani senza presente, si finisce con l’ottenere queste conseguenze. La Terza Repubblica italiana è cominciata. Ora bisogna solo sapere quanto ci metterà ad espandersi e dove si ripeterà.