Oggi il nuovo piano industriale. Dopo i 4mila esodati del «piano Fenice» (costati 3 miliardi) sul tavolo di Passera arrivano altri mille licenziamenti: motivo ufficiale, c'è la crisi. Giusto come quattro anni fa

A quattro anni di distanza Alitalia sta punto e a capo. E oggi si presenta davanti ai sindacati "affidabili" (Cgil, Cisl, Uil, gli altri no) con in mano un piano industriale che gronda ancora di lacrime e sangue. Motivazione ufficiale: c'è la crisi, la gente vola meno, le compagnie low cost si mangiano quote rilevanti del traffico passeggeri. Peccato che sia esattamente lo stesso quadro di quando la famigerata Cai ha avuto in grazioso regalo dal governo Berlusconi la compagnia di bandiera, Alitalia appunto. Che significa? Semplicemente che quattro anni fa era stato disegnato un altro "piano industriale" sulla base di un quadro molto simile; insomma, che imponeva sacrifici feroci per tener conto di una situazione pesante. La «garanzia» di successo, si diceva, stava nella privatizzazione; affidata ai «capitani coraggiosi», un gruppo di imprenditori privati selezionati sulla base dell'amicizia verso il governo allora in carica (Colaninno, Toto, Riva dell'Ilva, Marcegaglia, Benetton ed altri) e inquadrati nell'ambizioso «piano Fenice» ideato dall'amministratore delegato di IntesaSanPaolo. Ovvero Corrado Passera, attuale ministro dello Sviluppo che si ritrova in mano la stessa patata bollente con un altro vestito addosso.
Ma qual è la situazione dei conti Alitalia oggi? Diciamo che perde quasi la stessa cifra che allora giustificò la liquidazione della compagnia pubblica. Solo che «i privati» sono riusciti a raggiungere questo straordinario risultato in soli 48 mesi (invece dei 20 anni che ci avevano messo i manager «pubblici»), nonostante abbiano potuto contare su appena 14.000 dipendenti invece dei 20.000 originari. Peraltro pagati molto meno, con orari di lavoro più lunghi, con contratti «derogabili» a piacere e grandi agevolazioni fiscali.
Come hanno fatto? Si può pensare che il business del trasporto aereo sia troppo complicato per gente che non se ne era mai occupata. È vero, c'era tra loro Carlo Toto, patron di AirOne, capace di trasformare una compagnia fallita in «acquirente» di Alitalia grazie alla banca cui doveva cifre mostruose. IntesaSanPaolo, naturalmente. Ma proprio per questo la fine era certa fin dall'inizio. Nemmeno Air France, che pure detiene il 25% del pacchetto azionario, aveva interesse a evitare che la nuova compagnia scivolasse velocemente verso il baratro. Alla fine dei giochi si prenderà ciò che le interessa pagando quasi nulla. Mentre se avesse dovuto acquistare quando voleva farlo, quattro anni e mezzo fa, avrebbe dovuto sborsare diversi miliardi allo stato italiano accollandosi anche i debiti della società poi liquidata. Un'idea geniale, quella di Tremonti & co, che misero invece a carico del bilancio pubblico 3 miliardi pur di poter dire che «si garantiva l'italianità», sottacendo che «l'azionista di riferimento» diventava Parigi.
Non si può dimenticare che la chiusura di Alitalia «pubblica» è stato il laboratorio di un esperimento contro il lavoro, i suoi diritti e la sua organizzazione. Sergio Marchionne, due anni dopo, ha semplicemente riproposto uno schema «vincente», inventandosi una newco senza nemmeno passare per il fallimento della vecchia impresa.
Per l'ex compagnia di bandiera le con conseguenze sono molto pesanti. Sabato scorso, per 4.300 dipendenti, è terminata la cassa integrazione ed è partita la mobilità «lunga». Sembrava un percorso povero, ma sicuro, verso la pensione. Poi però è arrivata Elsa Fornero, che ha spostato questo traguardo di sette anni. E adesso soltanto per 1.000-1.500 di loro potrebbe esserci una copertura da «esodati» riconosciuti come tali dal ministro del non-lavoro. Gli altri, come si dicono da soli, sono «candidati all'obitorio».
Nessuno di loro è stato richiamato dalla cig. Cai ha sempre preferito assumere nuovi precari per coprire i vuoti di organico; per di più facendosi pagare 2.000 euro a testa per il «corso di formazione». Nel 2011 la compagnia ha aperto una procedura di cassa integrazione a zero ore per altri 750 addetti, giurando che non erano «in uscita» perché la società «andava benissimo». Chiaro soltanto ora che anche questi non rientreranno più.
Anzi, oggi sul piatto dovrebbero venir messi - secondo centinaia di indiscrezioni concordanti - altri 1.000 lavoratori a tempo indeterminato. Mentre per i precari nessuno sa fare previsioni certe...
Intorno al tavolo si ritroverà una compagnia che i lavoratori trovano inquietante. Oltre al presidente di Cai, Roberto Colaninno, ci sarà Corrado Passera, l'ideatore del «piano» che ha portato a questo strabiliante risultato. Al fianco avrà il suo sottosegretario, Guido Improta, che ha ricoperto la carica di responsabile delle relazioni esterne dell'Alitalia fino al giorno prima di entrare nel governo. E poi i sindacati «affidabili», che ora minacciano la mobilitazione ma per quattro anni hanno garantito una sofferta pace sociale. Come ci dice Paolo Maras, ex assistente di volo e storico sindacalista del Sult (che poi ha dato vita con altre sigle all'Usb), «ci potrebbe essere una speranza solo se tutte queste persone non si occupassero più di trasporto aereo».
La privatizzazione di Alitalia, decisa dal governo Berlusconi, è stata l’occasione per favorire un gruppo di imprenditori e uomini di finanza amici, secondo una regola del capitalismo italiano, povero di capitali, ma ricco di relazioni e di debiti. Questa “stangata patriottica”, fu ottemperata da  venti “patrioti” che risposero all’appello di Berlusconi, che in passato, hanno fatto fortuna con connivenze e favoritismi e i loro successi sono spesso stati delle fregature per il resto della collettività. Il 5 dicembre del 2008 quando l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva motivato quei ventuno imprenditori e finanzieri che aveva chiamato “nella Cai (Compagnia Aerea Italiana, NdR), la cordata italiana per il cosiddetto salvataggio dell’Alitalia” con questa frase: “Siete dei patrioti. Vi ringrazio per aver risposto con il cuore e vedrete che sarà un buon investimento”. Senza entrare in tutti i particolari di cronaca, l’epopea finale dell’Alitalia, azienda di Stato che aveva collezionato perdite inarrestabili e un mega indebitamento si chiude malinconicamente nel silenzio assordante dei media. Il 29 agosto del 2008 la compagnia “viene messa in amministrazione straordinaria, in pratica un fallimento pilotato dal governo di Silvio Berlusconi”. L’onere di vendere “l’attività e liquidare il patrimonio è affidato a un commissario, Augusto Fantozzi, un facoltoso avvocato romano e professore universitario di diritto tributario”. Alla fine del 2008 la polpa dell’ex principale compagnia aerea italiana venne venduta direttamente“senza una vera gara al miglior offerente” alla Cai “una cordata di eletti nel nome dell’italianità”. Questa transazione avrebbe subito evidenziato l’ennesimo conflitto d’interessi, “uno dei problemi chiave che ostacola la crescita, non solo economica, della società italiana”. In quest’anomalia, in questo vulnus vi è purtroppo “scarsissima sensibilità, anche nel mondo dell’informazione”. Tutti questi, “imprenditori e finanzieri” (uno di essi si ritirò già dalle prime fasi “preso dai suoi problemi finanziari, ed è stato interamente rimborsato” rimanendo in venti) che lavoravano in settori a contatto con il governo o con la politica, hanno aderito alla chiamata del Premier proprio in virtù del rapporto clientelare-particolare posto in essere con i centri del potere politico economico di ieri e, purtroppo anche di oggi. 

Secondo i dizionari della lingua italiana, patriota è colui il quale “ama la patria e lo dimostra, specialmente lottando e sacrificandosi per essa” (Zingarelli) o è “persona votata all’esaltazione e alla difesa di un’idea nazionale e politica” (Devoto-Oli). Certo è che dopo aver visto la "cordata" demolire definitivamente la nostra gloriosa compagnia di bandiera negli ultimi 3 anni, questa parola, che evoca imprese epiche imparate sui banchi di scuola, assume un significato ben diverso. E' purtroppo una vicenda quasi dimenticata che però abbiamo il dovere di divulgare  perché non bisogna rimanere indifferenti “di fronte alle ingiustizie e alle forme di diseguaglianza sociale”. Lo dobbiamo ai nostri figli. “Non sono mai stato povero, ma neanche diventerò ricco con questo lavoro. Lo faccio per l’Italia”, Augusto Fantozzi (settembre 2008).