Basta già guardarla. Ottantaquattro commi in un solo articolo monstre affastellati uno sopra l’altro. Tutto e il suo contrario. Molto diavolo e poca acqua santa.
Questa è la legge che chiamano “anticorruzione” in approvazione alla Camera.
E pure, come avvertito da ripetuti appelli del Capo dello Stato e della comunità scientifica, il groviglio normativo costituisce il pantano preferito per i caimani e i furbastri della corruttela.
Al paradosso della forma, corrisponde la beffa della sostanza, il pasticcio che a questo punto la Camera "dovrebbe" scongiurare.
Vediamoli i principali buchi neri che implorano rimedio.
1) Sino ad oggi un presidente o un consigliere regionale concussori perdevano il posto e non avevano più accesso a nessun altro incarico pubblico.
Da domani invece se questa legge venisse approvata, potranno tenerli ben stretti i loro posti e ottenerne anche di nuovi.
È l’effetto diretto della nuova fattispecie (“Indebita induzione”) uscita dal cilindro del compromesso al ribasso.
2) I processi per concussione dei colletti bianchi se non dovranno ricominciare da zero, andranno comunque tutti o quasi in prescrizione, accorciata di ben cinque anni. E nessun cittadino concusso (ora “indotto”) avrà più interesse a denunciare, dissuaso da una pena assai severa e senza alcuna riduzione per la collaborazione.
Qui siamo davvero al pro-concussione.
La fiducia messa al Senato ha per questo dato l’impressione di un patto tacito per sfuggire alle irrinunciabili correzioni, più che un modo per mettersi al sicuro da margini di peggioramento che davvero non ci sono.
I danni qui sono irreversibili perché basterà un solo giorno di vigore della nuova legge, per rendere definitivo il colpo di spugna che su questo giornale segnalammo già in giugno.
3) Anche i nuovi reati sono stati ridotti a specchietti scarichi, per allodole sfinite.
Il cosiddetto “Traffico di influenze” che dovrebbe punire l’intermediario dell’illecito pubblico, prevede una pena persino inferiore al millantato credito.
Con il paradosso che l’illecito mediatore è punito di meno se ha sfruttato davvero la conoscenza, i favori del pubblico ufficiale (per intenderci, lo schema lombardo dei Daccò).
Del resto che altri sarebbero dovuti essere i necessari obiettivi, lo si capisce dalla stessa relazione governativa che accompagna la legge.
Si parla infatti di “un deciso inasprimento delle pene” senza nulla aggiungere e precisare.
È purtroppo un falso bello e buono, atteso che proprio per il peggiore dei reati la pena è fortemente diminuita, ed una relazione di accompagnamento ne avrebbe dovuto spiegare ragioni, giustificazioni e impatto sui processi in corso.
E non affermare il contrario che ha il sapore della coda di paglia. Il punto è che non siamo in una situazione ordinaria dove poter discettare di un eventuale disegno organico di riforma del codice penale, magari di stampo libertario.
Se fosse questo il tema, non starebbe all’ordine del giorno di un governo di emergenza nazionale a fine mandato.
Si è in presenza invece di un allarme corruttivo che rende urgente rafforzare gli strumenti di contrasto. Quanto meno per i reati già esistenti, che sono quelli compiuti da Fiorito e colleghi.
Ed invece per il più odioso di questi la pena viene abbassata e abbreviata la prescrizione; mentre per gli altri si sta bene attenti a non allungarla e a impedire l’uso di adeguati mezzi di indagine.
E così la beffa sulle misure di contrasto offusca anche quello che di buono c’è nella norma con riguardo alla futura opera di prevenzione.
Ma qui il malato è agonizzante, non si tratta di prevenire ma di intervenire con cure da cavallo.
Basterebbe una norma secca: come stabilito dalla commissione europea per la corruzione internazionale, sarebbe sufficiente prevedere l’interruzione della prescrizione con il rinvio a giudizio o con la condanna in primo grado.
Eccola qui una norma semplice e degna del titolo “anticorruzione”.
Un comma solo, al posto di ottantantaquattro. Se non è possibile, è forse meglio archiviare la pratica. Almeno resta la possibilità di rivolgere al prossimo governo l’istanza corale dei cittadini tra cui gli oltre trecentomila che hanno firmato l’appello di Repubblica.
Comunque si eviti di fare danno e di allestire il banchetto per concussori e loro avvocati che ovviamente già si fregano le mani.
Mario Monti non dovrebbe farsene molto di un’etichetta da portare in Europa.
Il plauso sarebbe effimero perché quando capiranno cosa c’è sotto, rischiamo che ci ridano dietro. Ma soprattutto è il sistema paese che resterebbe spossato dalla beffa e dall’incapacità di migliorare.
Sempre preda di appiccicose e interessate resistenze, che sia politico o tecnico il suo governo.

L'assessore della Regione Lombardia arrestato con l'accusa di aver comprato 4.000 voti dalla 'ndrangheta non sarebbe potuto essere neppure indagato per voto di scambio, al pari di molti politici già sorpresi in relazioni pericolose con le cosche, se (come documentato da una intercettazione) non avesse pagato in denaro.
Per come è scritto l'articolo 416 ter, infatti, il voto di scambio è punibile solo se il politico lo paga in denaro, non se lo compra con assunzioni, appalti, favori. Incongruenza tante volte additata, sempre invano: ora la realtà si è incaricata di dimostrarne l'attualità, ma di questa modifica non c'è traccia nella legge anticorruzione. Che nemmeno reinterviene sul falso in bilancio: eppure, per restare alle ultime inchieste in Lombardia, le sovrafatturazioni alla base del quasi crac da un miliardo di euro del San Raffaele dovrebbero suggerire quanto improvvida sia stata nel 2002 la riforma che svuotò il falso in bilancio pur lasciando l'involucro del reato, e quanto incomprensibile sia ritenere un tabù il correggere subito quell'errore. Così come non si comprende il senso del rinvio ad altre occasioni (ma poi quali, seriamente?) di una norma che nel resto d'Europa punisce l'autoriciclaggio, cioè l'attività di chi occulta i proventi dei propri crimini, condotta oggi non sanzionabile a differenza di quella di chi ricicla i frutti di reati altrui.

Il gelatinoso rapporto tra il governatore lombardo e gli amici che gli pagavano le vacanze, mentre i loro ospedali-clienti beneficiavano di delibere regionali favorite dalla loro «consulenza», ribadisce poi quanto sia superato lo schema classico della tangente tra corruttore e corrotto: la regola è ormai la triangolazione in cui Tizio procura a Sempronio una qualche utilità (denaro, case, lavori, incarichi, leggi, sentenze, conoscenze) a fronte della quale Caio si rende disponibile a favorire Tizio, magari neppure direttamente ma influendo su altri. E allora è un peccato che la pur meritoria introduzione del reato di «traffico di influenze», anziché riprendere il testo delle convenzioni internazionali sulla corruzione alle quali la legge in cantiere dichiara di voler adempiere, si maceri da settimane in riscritture di aggettivi e avverbi, imposte dai diktat politici al pari di pene talmente basse da non consentire (guarda caso) le intercettazioni. E dell'invocata Europa stupisce si continui a non voler accogliere la richiesta di modificare (almeno dopo la sentenza di primo grado) l'assetto della prescrizione che, oltre ai 180 mila processi già estinti ogni anno, aggiungerà quelli vittime dei termini accorciati dalle più basse pene che la nuova legge introdurrebbe sulla «corruzione per induzione».

Quanti? Neppure il legislatore lo sa, nel solco di un cattivo modo di legiferare senza prima dotarsi delle statistiche sull'impatto delle riforme. A dispetto delle migliori intenzioni, persino una legge contro la corruzione può alimentare la «corruzione» concettuale del dimenticare che una legge si fa per apprestare una tutela efficace, non per «dare un segnale». Anche quando il segnale sarebbe giusto.
Nel quadro di una serie di interventi finalizzati alla lotta al fenomeno della corruzione, non avrebbero dovuto essere esclusi i reati di autoriciclaggio e di falso in bilancio, che sono strettamente connessi a reati contro la pubblica amministrazione. Tale condotta costituisce uno dei principali canali di occultamento dei proventi delittuosi, in particolare del crimine organizzato, dei reati economici e di corruzione. Deve essere valutata positivamente la determinazione per una riforma globale e sistematica dei reati contro la pubblica amministrazione, ma la struttura del processo nella quale la riforma si inserisce ne può gravemente condizionare l’efficacia. Sembra opportuno porre in evidenza il grave rischio di avviare riforme di diritto sostanziale, inserite nell’attuale metodo di calcolo della prescrizione dei reati, che possono far lavorare a vuoto il sistema. Il sistema processuale italiano basato sulla presunzione di innocenza sino all’esaurimento dei vari gradi di giudizio dovrebbe infatti prevedere di avviare un processo penale solo quando questo è potenzialmente in grado di arrivare a termine, altrimenti le ricadute sul sistema penale, già in difficoltà, potrebbero essere dannose.