L´economista Gustavo Piga nutre più di un dubbio sulle previsioni contenute nei documenti di finanza pubblica. A partire da quelli recenti del governo italiano...


Molte le menzogne circa i tassi di crescita dell´economia che meritano la nostra attenzione. Sono quelle che da sempre caratterizzano i documenti di finanza pubblica europea, specie da quando abbiamo scritto delle regole di limiti "costituzionali" legate al valore del PIL; come quelle di deficit e debito su prodotto interno lordo.

Ovviamente i governi europei hanno un incentivo in più sovrastimare questa statistica così importante: non solo per far bella figura sulla loro capacità di generare benessere, ma anche per evitare di mostrare conti pubblici che non obbediscono alle regole fissate a Bruxelles.

Quando poi arriva una recessione grave questi incentivi a "negare l´evidenza" diventano ancora più ovvi. E non è detto che siano cattive bugie, anzi.

Voi sapete che l´Italia nel 2012 era prevista crescere dell´1,2% secondo i documenti ufficiali del 2011. Ora sappiamo che (de)crescerà del circa 2,4%. Un errore di previsione del 3,6% non è nemmeno pensabile possa avvenire in così breve tempo. C´è del politico dietro di esso. Così come le stime attuali per il 2013, seppur negative, sono probabilmente rosee. Basta guardare al riassunto fatto dal centro studi di Confindustria dove si può vedere che Citigroup stima per l´anno prossimo una decrescita ben più ampia, attorno al 2,2%, dello 0,2% governativo.

Che la Commissione Europea non dica nulla al Governo Monti su questi scenari di PIL improbabilmente rosei significa solo che l´accordo è europeo e che in realtà tutti sanno benissimo che cosa significherebbe correggerle al ribasso: meno entrate, più deficit e più pressione politica (per esempio da parte della popolazione tedesca) per maggiore rigore e dunque maggiore austerità e decrescita nei paesi in crisi, aggravando la crisi. Già perché la follia è nota tutti che l´austerità è recessiva, ma non si può dire perché se lo dicessimo dovremmo anche ammettere che il contrario dell´austerità, l´espansione fiscale, è benefica per l´economia.

Quindi meno male che si menta: così non siamo obbligati a fare più austerità a causa delle idiotiche regole di politica economica che ci siamo dati.

E meno male che si menta anche per un altro motivo: ve lo immaginate cosa succederebbe se Monti andasse oggi in televisione e dicesse alle imprese italiane che la crescita 2013 non sarà del -0,2% ma, per esempio, del meno 1,5%? Quei pochi che vorrebbero ancora investire in Italia non lo farebbero più ("con questa economia? perché dovrei scommettere sul futuro?"), lanciando una nuova, l´ennesima, spirale perversa di dati pessimi, mancanza di fiducia, dati ancora peggiori ecc.

Sorge però a questo punto una innocente domanda: ma siamo sicuri che mentire sia sempre la strategia giusta? Non è che forse non sentendosi dire la verità la società rischia di non cercare mai la giusta soluzione? E non sarebbe meglio fare come fece Clinton, spiegare questi numeri alla popolazione? E non ne guadagneremmo il recupero di quello che in Europa ormai non abbiamo più, la credibilità dei numeri e dunque, in fondo, dei nostri Governi?


Questa i professori se la potevano risparmiare. Costruire un provvedimento in modo da potere dire che si stanno diminuendo le tasse, nel mentre si fa crescere la pressione fiscale, è una di quelle cose che non si perdonano ai governi politici, neanche in campagna elettorale. Anzi, in quel caso li si accusa di demagogia. Figuriamoci se si può perdonarlo a un governo tecnico, che un giorno sì e l’altro pure annuncia di non volere entrare nella competizione elettorale.

Gli attuali scaglioni Irpef prevedono che si paghi il 23% per i redditi fino a 15.000 euro l’anno, e il 27 per quelli fino a 28.000. Pur essendo l’Italia una delle più ricche economie del mondo, entro quel limite si concentrano la quasi totalità dei redditi (circa l’85%, se si comincia a contare da zero), il che già dimostra l’effetto corruttivo di una fiscalità che penalizza la ricchezza. Diminuendo di un punto quelle due aliquote si realizza un risparmio, per il contribuente, e un minore gettito, per il fisco, nell’intorno dei 2 miliardi. Aumentando di un punto l’Iva, come il governo a contemporaneamente deciso (dopo avere alimentato la speranza che se ne potesse fare a meno), si ottiene un maggiore gettito, quindi un aggravio per i cittadini, che va da 3 a 3,5 miliardi, a seconda di come andranno i consumi. E siccome rimettere qualche soldo nelle tasche di chi ha redditi bassi significa dirigerli non certo verso il risparmio, ma verso la spesa, il risultato di questo provvedimento è il seguente: si diminuisce l’aliquota e si aumenta la pressione fiscale. Il reddito disponibile, per le famiglie, non cresce, ma diminuisce. Sicché, ragionevolmente, chi ha messo a punto un simile meccanismo aveva in mente di conquistare un titolo sui giornali, non di ridare fiato all’economia. Tanto era questo l’intento che nel governo hanno litigato proprio sulla precedenza nel dare l’annuncio (Mario Monti s’è risentito, dicono, con Gianfranco Polillo, che lo avrebbe bruciato sul tempo).

Ma perché lamentarsi, non si tratta pur sempre della tanto reclamata riduzione della pressione fiscale? Intanto no, non è così. Ma la cosa più rilevante è che nel rinunciare non tanto al gettito (che, ripeto, aumenta), quanto ad una sua specifica qualificazione, il governo non s’è indirizzato laddove è necessario per ridare fiato alla crescita, lasciando immutati sia l’Irap che il cuneo fiscale. L’Irap è un’imposta applicata al lavoro, con effetti terribilmente recessivi. Il cuneo fiscale agisce anch’esso in senso recessivo, perché tiene sopra la media europea il costo del lavoro, lasciando i salari sotto la media. Senza mettere mano a questi due chiodi, conficcati nelle carni dell’Italia produttiva, non si riprende la via dello sviluppo e non si guadagna in competitività. I professori lo sanno, come lo sa chiunque abbia posto mente a questi problemi. Ma hanno preferito agire come un qualsiasi governo che va accattonando consensi, anche imbrogliando la gente con un uso spregiudicato della comunicazione.

Puntare alle aliquote, mascherarsi dietro l’alleggerimento del peso sulle spalle dei poveri (cioè tutti, a voler credere alle dichiarazioni dei redditi), non solo è tecnicamente falso, ma risponde ad un’idea falsamente deamicisiana e concretamente pauperistica del Paese. La speranza era che un governo tecnico fosse affrancato, per sua stessa natura, da tali bassezze. Purtroppo delusa.

Resta il fatto che il professor Monti è preferibile ad un mondo politico incapace di fare politica, tremulo nel denunciare il raggiro, privo di idee e colmo di lestofanti. Un mondo che a destra ancora pensa che basti cambiare nome per non essere riconosciuti e a sinistra che si possano regolare i conti sempre in prossimità delle elezioni, anziché subito dopo averle perse. Un mondo che ancora pensa di cambiare la legge elettorale dando un premio di maggioranza alle coalizioni, come se diciotto anni di false coalizioni, rissose e ingovernabili, non fossero sufficienti a dimostrare che quell’impostazione non funziona. Ma è un fatto, Che Monti sia il meno peggio, moralmente deprimente ed economicamente recessivo.