OSLO - Il premio Nobel per la pace 2011 è andato a tre donne: Ellen Johnson-Sirleaf, presidentessa della Liberia, Leymah Gbowee, avvocatessa liberiana, e all'attivista yemenita Tawakkul Karman, "per la loro lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del loro diritto a partecipare al processo di pace".
La commissione norvegese si è augurata che l'assegnazione del premio alle tre esponenti femminili, di cui due africane , "aiuti a porre fine all'oppressione delle donne, che ancora esiste in molti Paesi, e a realizzare "il grande potenziale" che le donne possono rappresentare per la pace e la democrazia.

Ellen Johnson-Sirleaf, attuale presidente della Liberia e prima donna a rivestire questo incarico nel continente africano, era uno dei nomi più probabili girati per l'assegnazione del riconoscimento. E' stata premiata insieme alla sua connazionale Leymah Gbowee, pacifista e avvocato, che ha mobilizzato le donne africane contro la guerra civile che ha sconvolto per anni la Liberia. Con loro divide il riconoscimento una rappresentante della "primavera araba", l'attivista yemenita Karman, volto della protesta yemenita contro il regime di Ali Abdullah Saleh. "Tawakkul - ha spiegato la Commissione - ha svolto un ruolo primario nella battaglia per la pace e la democrazia in Yemen".

Johnson-Sirleaf, arrivata al potere nel 2005, è impegnata nella ricostruzione del suo paese devastato da 14 anni di guerra civile, che ha causato la morte di 250.000 persone. Di formazione economista, con un Master in public administration conseguito ad Harvard nel 1971, Johnson-Sirleaf parte in esilio a Nairobi, in Kenya, nel 1980, dopo il rovesciamento dell'allora presidente William Tolbert. Torna in patria solo nel 1985, per partecipare alle elezioni del senato della Liberia, ma quando accusa pubblicamente il regime militare, è condannata a dieci anni di prigione. Rilasciata dopo poco tempo, si trasferisce a Washington e torna in Liberia solo nel 1997 nel ruolo di economista, lavorando per la Banca mondiale e per la Citibank in Africa.

Corre per la prima volta alle presidenziali contro Charles Taylor nel 1997, ma raggiunge solo il 10 per cento dei voti, contro il 75 per cento di Taylor, che poi l'accusa di tradimento. Dopo la sua vittoria alle elezioni del 2005, Johnson-Sirleaf pronuncia uno storico discorso alle camere riunite del Congresso degli Stati Uniti, chiedendo il supporto americano per aiutare il suo paese a "divenire un faro splendente, un esempio per l'Africa e per il mondo di cosa può ottenere l'amore per la libertà". Johnson-Sirleaf è madre di quattro figli (due vivono negli Usa e due in Liberia) e ha sei nipoti, alcuni dei quali vivono ad Atlanta.

Leymah Gbowee, avvocato, è una militante pacifista e nonviolenta che ha contribuito a mettere fine alle guerre civili che hanno dilaniato il suo paese. Minuta, di carnagione chiara (per questo è soprannominata "rossa"), la Gbowee ha da poco pubblicato la sua autobiografia, "Mighty be our powers: how sisterhood, prayer, and sex changed a nation at war". Tra le iniziative più note dell'attivista, di etnia kpellè, nota anche come la "guerriera della pace", va ricordato "lo sciopero del sesso", un'iniziativa che costrinse il regime di Charles Taylor ad ammetterla al tavolo delle trattative per la pace.

Ad appena 32 anni, esattamente come quelli del potere del presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, l'attivista yemenita Tawakkul Karman ha tre figli e molto coraggio: in poco tempo è divenuta la leader della protesta femminile contro il regime yemenita. Giornalista e fondatrice dell'associazione "giornaliste senza catene" è militante nel partito islamico e conservatore Al Islah, primo gruppo di opposizione. Nel gennaio di quest'anno era stata arrestata dalle autorità yemenite, costrette poi a rilasciarla sotto la pressione delle manifestazioni in suo sostegno, che hanno portato in strada migliaia di persone.
"E' un premio per me, ma soprattutto per tutte le donne dello Yemen", ha commentato a caldo con gioia Karman, che ha dedicato la vittoria ai militanti della primavera araba. A lei sono andate le felicitazioni via twitter del ciber-attivista egiziano Waël Ghonim, icona della rivoluzione Facebook citato spesso come possibile candidato al premio: "Come arabo sono fiero di questa vittoria meritata", ha scritto su twitter, aggiungendo che "il nostro vero premio è che i nostri Paesi siano più democratici e rispettosi dei diritti umani".
Il presidente Giorgio Napolitano si è congratulato per il premio alle tre attiviste: "La scelta di premiare tre donne direttamente impegnate nel rinnovamento democratico nei rispettivi Paesi" si legge in un comunicato del Quirinale, "riconosce la straordinaria originalità del contributo femminile all'avanzamento del progresso civile e sociale nel mondo contemporaneo. Questo Premio Nobel sancisce al tempo stesso il cammino del continente africano verso la pace e lo sviluppo e rafforza le spontanee istanze di libertà, partecipazione e democrazia che si levano da numerosi Paesi del Mediterraneo e che non possono più essere disattese".
"VADO in piazza, certo che vado in piazza. Non mi fermerò, fino a quando la voce della gente non sarà ascoltata e il presidente se ne andrà". Di parole come queste se ne sono sentite a migliaia in queste settimane di rivolta nei Paesi arabi: quelle di Tawakkol Karman però sono speciali. Per due motivi: perché vengono da una donna e perché vengono da uno dei Paesi più conservatori del mondo arabo, quello Yemen che, dopo 32 anni di controllo quasi indiscusso, da cinque settimane vede il governo del presidente Ali Abdullah Saleh traballare sotto i colpi della rivoluzione arrivata da Tunisia ed Egitto.
Alla testa della rivolta che ieri, nella manifestazione più grande dall'inizio della protesta, ha portato in piazza 100mila persone a Sanà a e altre migliaia nel resto del Paese c' è appunto lei: Tawakkol Karman, 32 anni, madre di 3 figli, presidente dell'associazione Donne giornaliste senza catene e membro attivo di Al Islah, il principale partito di opposizione, di stampo conservatore islamico. Da settimane Al Islah, insieme ai giovani dell'università di Sanà a, l'altro motore della protesta, chiede le dimissioni immediate di Saleh: ieri per ribadire questa volontà ha organizzato proteste nelle principali città. Una manifestazione di forza impressionante per un Paese come lo Yemen, non certo uso al dibattito democratico, che è finita nel sangue: a Sanà a ci sono stati scontri, diventati più accesi non appena il portavoce di Saleh ha ribadito che il presidente non intende accettare le richieste di dimissioni. In altri posti è andata peggio: ad Aden, dove gli scontri sono stati più duri nei giorni scorsi, ieri ci sono stati altri feriti. Nel nord la protesta si è sommata a una rivolta contro il governo centrale che va avanti da anni: nella provincia di Umran l'esercito ha sparato sulla folla e fatto 5 morti.
"Ci sarà sangue, lo sappiamo bene. Ma non abbiamo paura: è o ora o mai. C' è stato sangue in Tunisia e in Egitto, ma alla fine la gente ha vinto", dice al telefono da Sanà a Karman. Al fatto che la rivolta sia guidata - anche - da una professionista a volto scoperto in un Paese dove la maggior parte delle donne sono fantasmi vestiti di nero e ostaggi delle famiglie, lo Yemen pare ormai essersi abituato: Karman gira con una sorta di scudo umano attorno, per impedire che venga picchiata o arrestata. Quando è finita in carcere centinaia di persone hanno protestato. In fondo in questi giorni a Sanà a accadono cose più strane: alcune delle tribù più importanti che si schierano contro Saleh. Membri del partito di governo che danno le dimissioni dal Parlamento per protesta contro la repressione. Dove questo potrà portare lo diranno solo le prossime settimane.
Che l'esempio di questo coraggio rimanga scolpito nelle nostre menti, nei nostri cuori. L'amore per la libertà, la giustizia, la democrazia, non devono, come troppo spesso sentiamo dire, essere surrogati lessicali di principi retorici e demagogici. Altresi credo che lo spazio delle nostre vite possa raggiungere la sua massima comunione d'intenti e la più completa sintesi di appagamento nella lotta comune contro la sperequazione, l'ingiustizia, l'illegalità diffusa, la crisi del sistema dei valori. Così che la felicità dell'uomo, il suo benessere, la speranza in un futuro prospero per noi e per le generazioni a venire tornino ad essere il punto di partenza primario, il punto focale, la pietra filosofale capace di risanare questo orribile, terribile, contraddittorio mondo globalizzato.