L’Italia passa da un governo da discoteca a un governo da biblioteca ma gli spread rimangono alti. L’effetto Monti, che ieri è andato a Bruxelles a convincere i suoi ex colleghi euroburocrati non impedisce che la sfiducia dei mercati nei confronti dell’Italia perduri e si diffonda anche a nazioni, come la Francia, che , almeno per ora, detengono ancora la AAA. In Spagna l’elezione di Rajoy invece di far scendere gli spread li raddoppia al punto che il tasso al quale il paese può indebitarsi è più alto di quello che pagava il Portogallo e la Grecia. Negli Usa non ci si mette d’accordo sul bilancio e si rischia un’altra crisi simile a quella di agosto quando non si sapeva se alla fine del mese lo Stato avrebbe pagato gli stipendi degli impiegati statali. La colpa del caos economico ci viene detto è degli speculatori. Ma è proprio vero? Chi oggi svende il debito italiano e spagnolo, esce dall’euro e compra il debito inglese sono i gestori dei nostri fondi pensione e le banche dove abbiamo depositati i nostri risparmi. Chiedete a chi vi gestisce i risparmi dove sono finiti i vostri soldi negli ultimi 10 anni. La speculazione al ribasso è stata vietata all’inizio dell’estate. Chi ci incita a gridare contro gli speculatori ‘dagli all’untore’ lo fa per nascondere le vere cause di questo caos economico e finanziario che sono: una politica neo-liberista pe risolvere una crisi creata dalla stessa politica neo-liberista.
Cosa bisognerebbe fare per uscire dalla crisi economica e cosa può realmente fare la politica e lo Stato? È chiaro che non vi sono risposte semplici a queste domande. Diffido di quelle che discendono da letture parziali del fenomeno o da una qualche sua manifestazione più o meno importante per invocare interventi in questa o quella direzione. Il dato empirico è quello di una crisi di sovrapproduzione generale, sicché le merci non trovano sbocchi nei mercati e, perciò, la produzione langue, gli impianti produttivi sono sottoutilizzati se non chiusi, mentre si generano ovunque sottoccupazione, disoccupazione, deperimento e distruzione di capitali, paurosi indebitamenti degli stati, ecc.. E sebbene con la globalizzazione si sia affermata una certa uniformità dei modelli economici capitalistici, si tratta di una “crisi di sistema” perché la crisi economica è implicita nella definizione di qualsiasi modello di sistema di libero mercato, che è un sistema ciclico, dove alla crescita economica succede la crisi. Sta di fatto, però, che il sistema tende a superare le crisi economiche della gravità di quella che stiamo attraversando, distruggendo grandi quantità di forza lavoro, viva e cristallizzata (capitali), generando con ciò crisi sociali e incubando crisi degli stati, crisi internazionali, guerre locali e mondiali. Il sistema capitalista è, dunque, pericoloso, anche se le sue manifestazioni cicliche sono precedute da segnali inequivocabili. Le crisi economiche seguono un aumento generalizzato della povertà, il commercio e l’industria  poi, pur sottoposti a processi di razionalizzazione e concentrazione monopolistica, complessivamente ristagnano, impazzano le speculazioni finanziarie e la finanza “creativa” stimola bolle finanziarie che poi si sgonfiano in modo devastante per milioni di risparmiatori. Ma la droga del profitto facile o l’illusione di potersi sottrarre alla caduta  el saggio di profitto, porta le classi dominanti ad arroccarsi e a negare l’evidenza di tali segnali ad un’opinione pubblica distratta o ben manipolata. Più in generale, inoltre, esse esprimono una pulsione a distruggere uno ad uno gli strumenti che servono a dirigere o a orientare l’economia nel medio e lungo periodo fuori da logiche strettamente di mercato. L’interesse “pubblico” è costretto a cedere alle istanze del profitto “privato”, ma queste sono foriere di anarchia. In ultima analisi, i campanelli d’allarme non vengono ascoltati, né “la politica” adotta cautele e maggiori prudenze. Invece di prevenire il pericolo, i segnali della crisi sono usati per piegare la politica ad accettare il sistema con i suoi cicli. Così la “politica” distrugge gli strumenti di controllo dell’economia, e lascia funzionare il sistema. Ma allora la società non può più difendersi. Questo è il senso della “crisi della politica”. La società chiede alla politica di controllare l’economia, ma la politica è ormai impotente.
La crisi del sistema economico neo-liberista imposto da una classe politica incapace e voracemente assediatasi nei centri del potere è fondamentalmente la crisi della “politica delle classi dominanti”. Intanto, nuove società in tanti paesi del mondo hanno evitato il caos intraprendendo uno sviluppo impetuoso che la decisiva presenza del “pubblico” in economia programma nei suoi aspetti essenziali. Alcune di queste società sono il prodotto di rivoluzioni socialiste, le più dinamiche sono dirette dai comunisti o da forze progressiste che esprimono nuove classi dirigenti selezionate da lunghe lotte antimperialiste e per il progresso sociale che coinvolgono grandi masse popolari. Comunque si vogliano giudicare queste grandi esperienze, positivamente o mantenendo delle riserve di fondo – ben comprensibili se si considerano i dislivelli tra le diverse realtà economiche a confronto ed i problemi complessi che quelle società devono affrontare – quei paesi hanno, generalmente, scelto uno sviluppo economico per il progresso e per lo sviluppo complessivo della società e non per gli interessi di classi privilegiate. E con queste scelte hanno trovato la soluzione per evitare la crisi economica. Non fosse che per questo, quelle esperienze hanno un valore universale.