Sarebbe facile, riduttivo, quasi puerile individuare nella figura del Presidente del Consiglio dei Ministri Italiano l'unico o il primo responsabile di quanto di più drammatico in queste ore ci travolge, come un fiume in piena, come uno tsunami finanziario che irrispettosamente sconvolge quotidiano, vissuto, ambizioni, futuro.

Certo le responsabilità dell'esecutivo sono incontrovertibili ed evidenti: l'immobilismo dell'esecutivo è un ossimoro cui ci siamo assuefatti da tempo immemore. Ma attribuire a Berlusconi ed alla credibilità perduta (o mai avuta), la colpa dei drammatici eventi che interessano Piazza Affari in queste ore sarebbe una mistificazione storica.

E' del tutto evidente, infatti, che la crisi sia sistemica, strutturale e non ciclica. Le cause sono essenzialmente una crescita smisurata del ricorso a vari tipi di indebitamento: finanziario (derivati, obbligazioni, titoli azionari mobilitati per un valore totale otto volte superiore al Pil reale), monetario (il denaro emesso è 12 volte il Pil mondiale), pubblico (sia quello contratto dai vari stati con altri stati, sia quello verso i propri cittadini-risparmiatori), privato (crediti al consumo, carte di credito...). Ma i debiti hanno un difetto: creano i creditori che, presto o tardi, chiedono di essere onorati, rimborsati. Se lo fanno si aprono le crisi di insolvenza ad effetto domino; si inizia con i default di istituti di credito immobiliari, banche, assicurazioni, fondi pensionistici e si finisce col minare la credibilità e la fiducia verso le istituzioni statali garanti dell'ordine sociale, oltre che dei titoli di credito.

E queste son le cause che hanno portato alla crisi dei mutui sub prime del 2008.

Oggi la situazione, se possibile è ancor più drammaticamente preoccupante: il mondo finanziario tiene in ostaggio l'economia reale con il rischio default paventato dagli speculatori senza scrupoli; il mondo finanziario ed economico è controllato da poche banche d'affari e fondi comuni d'investimento e 3 agenzie di rating (standard and poor's, fitch e moody's) che con il rating espresso su titoli ed obbligazioni sono in grado di influenzare pensantemente non soltanot gli andamenti borsistici, ma conseguentemente, l'andamento della intera economia mondiale, quella reale, appunto.

Dal 2008 in poi non si è imparato nulla. Si è concesso a chi ha speculato di continuare indefesso nella propria attività lucrativa con una differenza non trascurabile: per rilanciare l'economia soffocata dalla crisi dei mutui sub prime del 2008 si è ristampato denaro ossigenando i caveau degli istituti bancari di tutto il mondo (ma in particolare in Europa lo ha fatto la BCE), con prestiti a tassi agevolati all'1% che, reinvestiti in titoli del debito pubblico, rappresentavano un investimento sicuro, soldi facili facili, apparentemente. Ma nella scorsa estate, inevitabilmente c'era tanto debito pubblico nelle pance di banche e di fondi in tutto il mondo. Lo hanno venduto, poi ricomprato e poi rivenduto, di nuovo. Sempre più velocemente. I prezzi sono scesi, i tassi saliti, in pochi al mondo ci hanno guadagnato, gli hedge funds, le grandi banche d'affari, le dark pools mentre gli Stati si indebitano sempre di più e tagliano spesa pubblica insieme ai servizi sociali.

Se a ciò aggiungiamo la fragilità politica e sistemica dell'Europa, unita soltanto da una moneta condivisa ma in realtà divisa politicamente, economicamente, finanziariamente e sociologicamente, il quadro che si delinea è completo.

Ed infatti gli attacchi speculativi degli ultimi anni nascono a suo tempo dall’abbandono del loro campo proprio da parte dei politici del continente (di destra e di sinistra), a favore delle volontà dei mercati, delle banche, delle agenzie di rating. E, proseguono con l’incapacità e la scarsa voglia della classe politica attuale di portare avanti un progetto di sviluppo complessivo e solidale del continente; tale indecisione contribuisce poi ad alimentare la crisi stessa, favorendo la speculazione. Intanto chi può, come la Germania, – che dovrebbe guidare il processo di rinnovamento del continente –, cerca invece di portare avanti una strategia alternativa, in direzione dello sviluppo dei legami con i paesi emergenti e in particolare con la Cina e la Russia.


E' pacifico che, questa crisi, non potrà che finire, prima o poi, o con l’uscita dall’euro dei paesi del Sud Europa, o con l’avvio deciso dell’Europa verso una unificazione economica e politica sostanziale.


E a nulla serve o servirà il piano di salvataggio varato nei giorni scorsi. Anzi al contrario sembra del tutto inadeguato rispetto alle scelte sulle questioni di fondo. Tra l’altro, il documento pretende di risolvere la crisi greca ma aspettiamoci, dopo i primi due, anche un terzo e forse un quarto pacchetto per salvare il paese ellenico. Con l’accordo, il rapporto debito/pil scenderà infatti per il paese dal 170% al 130%, che appare certamente ancora troppo elevato. La crisi, peraltro, non è ormai tanto quella della Grecia, o anche del Portogallo e dell’Irlanda, ma essa ha al centro l’Italia e la Spagna, paesi di ben altre dimensioni. Così, gli investitori esteri posseggono, grosso modo, solo per quanto riguarda il nostro paese, titoli pubblici per circa 800 miliardi di euro, di cui quasi i tre quarti sono nelle mani delle banche francesi e tedesche. Altro che esposizione verso la Grecia! In questo senso, la dotazione del fondo salva- stati (Efsf) appare nettamente inadeguata al compito.

Forse l'errore di fondo è stato trattare il problema della Grecia come un semplice problema di liquidità mentre si tratta invece di una crisi di solvibilità, di difficoltà strutturali legate al fatto che il paese non riuscirà mai a ripagare il suo enorme debito ed è destinata quindi all’insolvenza.

Le cause di tali problemi strutturali, comuni peraltro anche al nostro paese, sono certo legate da una parte alla dissennata politica di spesa pubblica perseguita in passato dalla Grecia come dall’Italia, ma anche e soprattutto, dall’altra, al fatto che l’economia di tali paesi non cresce più da tempo; in particolare, essi, insieme a Portogallo, Spagna, Francia, non sopportano un cambio dell’euro a 1,4 e oltre con il dollaro. Naturalmente pesa poi fortemente, in Europa come negli Stati uniti, in direzione di un alto livello di debito pubblico, lo sconquasso portato dalla crisi, sia in termini di maggiori uscite per sostenere l’economia che di minori entrate fiscali.

La mancata crescita dei paesi del Sud Europa è legata poi a molti fattori, non ultimo quello relativo al fatto che dal momento dell’ingresso nell’euro tali paesi non sono più stati in grado di svalutare la loro moneta per far fronte alla loro scarsa competitività.

Intanto, combattere la speculazione sui titoli europei appare “tecnicamente” una cosa relativamente semplice. Dal momento che con l’accordo di Bruxelles il potere di acquistare titoli pubblici sul mercato è stato nella sostanza trasferito dalla Bce al fondo salva stati, “basterebbe” dotare tale fondo di risorse adeguate alla bisogna. Attualmente a esso sono stati attribuiti 450 miliardi di euro, che bastano però a malapena a difendere Grecia, Portogallo e Irlanda, non certo l’Italia e la Spagna. Allora bisognerebbe portare la dotazione, come ha calcolato qualcuno, intorno ai 2.000 miliardi di euro e la speculazione si ritirerebbe in buon ordine per qualche anno. Naturalmente qui la difficoltà è di ordine politico: si tratterebbe di convincere i governi del Nord Europa (cioè quelli dei paesi più forti) e il loro elettorato.

Ma a questo punto resterebbe ancora il lavoro più impegnativo, quello di ridurre il peso dell’indebitamento, di aumentare i tassi di crescita dell’economia dei paesi del Sud, di governare infine il sistema finanziario.
Al riparo dalla speculazione, si potrebbe organizzare la necessaria “ristrutturazione” del debito dei paesi deboli facendo contribuire finalmente sul serio anche le banche alla cosa, dopo che esse hanno prestato irresponsabilmente somme astronomiche alla Grecia. Basta finalmente con il “socialismo delle banche”, con la consueta privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite. Tra l’altro, i grandi istituti andrebbero adeguatamente capitalizzati. Ma la ristrutturazione risolverebbe il problema solo temporaneamente, se non si attivassero anche delle azioni per arrivare a una convergenza competitiva delle varie economie. Per altro verso, la stessa manovra di ristrutturazione potrebbe essere tanto meno pesante e impegnativa, quanto più avanzasse il progetto di unione economica e politica del continente, con un piano “Marshall” di rilevanti proporzioni – finanziato magari con i tanto discussi eurobond, che a questo punto non servirebbero tanto per ristrutturare il debito, ma per fini di sviluppo –, finalizzato a rendere l’economia dei paesi del Sud più competitiva. Anche in questo caso far digerire la cosa ai paesi del nord appare comunque un esercizio difficile e di lunga lena. Ma bisognerebbe comunque provare.
Bisogna ridimensionare e controllare la finanza, anche per restituire un po’ di potere agli stati e alla politica. Vanno poi sottolineate le proposte di lotta contro i paradisi fiscali, per la tassazione delle transazioni finanziarie, il controllo stretto del sistema bancario ombra, e in particolare degli hedge fund, maestri della speculazione, nonché per i prodotti derivati – tra i quali i famigerati cds –, la proibizione delle vendite allo scoperto sui mercati di borsa, la separazione tra attività di banca ordinaria e di banca di investimento, con la correlata attività di speculazione in proprio, del controllo specifico delle banche più grandi, il governo – infine - delle agenzie di rating.

Sicuramente avremmo qualche cinico speculatore finanziario in meno ed una stabilità ritrovata dei sistemi finanziari e del circuito bancario, anticamera di una migliore qualità delle nostre stesse vite. La domanda è: come mai i nostri rappresentanti politici non vedono ciò che a noi risulta del tutto evidente? Limitare (o eliminare) le armi della speculazione finanziaria restituirebbe alla economia reale il ruolo prioritario che le compete.