Autunno 2008. La crisi finanziaria globale si stava affacciando al mondo con il fallimento della banca d'affari Lehman Brothers. Intanto, in Islanda, la situazione stava già precipitando: nel giro di una settimana l'intera economia nazionale è collassata. Colpa di un settore bancario iper indebitato. In pochi giorni il valore della Corona è sceso del 40%. Il tasso di interesse è balzato al 18%, la disoccupazione è giunta rapidamente dallo zero al 10%. Insomma, un tracollo generale. Ma le istituzioni hanno adottato fin da subito una "politica di inclusione economica e sociale" che in tre anni ha portato il Paese fuori dalla crisi. Non solo, l'Islanda è tornata a crescere al ritmo del 3% all'anno (nel 2011 e nel 2012).


Qual è la ricetta? L'ex ministro delle Finanze e attuale ministro dell'Economia di Rejkiavik Steingrímur Sigfússon l'ha riassunta in una lettera al Financial Times: tassazione progressiva (paga di più chi ha il reddito alto, le fasce deboli pagano poco o nulla) e servizi di welfare tagliati meno rispetto ad altri capitoli della spesa pubblica. Il risultato è stata una distribuzione più equa della ricchezza che ha permesso alle fasce più povere della popolazione di rimanere all'interno del sistema economico. Non escludendo nessuno, è il messaggio, tutti possono partecipare alla ricostruzione.



Certo, l'Islanda è un Paese atipico. Il primo a dirlo è lo stesso ministro: il turismo è molto sviluppato, il settore energeticoè già avanzato nelle tecnologie a basso impatto ambientale, le professioni creative e le industrie ad alto contenuto tecnologico hanno mantenuto l'attrattività del Paese anche in questi anni bui. Poi, il deprezzamento della Corona ha favorito moltissimo le esportazioni. Ma secondo Sigfússon il modello islandese può essere almeno in parte esportato: invece di far pagare all'economia reale e ai servizi sociali i problemi della finanza, i governi europei possono scegliere un'altra strada.

Ecco quale: politica inclusiva (non abbandonare nessuno) e un piano di salvataggio solo parziale delle banche. L'Islanda ha diviso gli istituti di credito indebitati, facendoli confluire in nuove società. In questo modo il Paese non si è sobbarcato per intero i costi del recupero. Poi, il governo ha protetto i risparmi dei suoi cittadini: con leggi di emergenza emanate appena prima del tracollo ha stabilito che i conti correnti degli islandesi dovessero essere coperti in caso di fallimento delle banche. Una misura che con il senno di poi si è rivelata fondamentale. Forse è questo l'ingrediente della ricetta più esportabile: decidere per legge che i soldi dei correntisti non possano essere usati per mitigare le perdite delle speculazioni finanziarie. "E non deve servire un tracollo nazionale per indurre i parlamenti a prendere questa misura", conclude il ministro.