di Alberto Asor Rosa

Ora sono tutti d'accordo. Anzi: ora siamo tutti d'accordo: Berlusconi deve andarsene. Se non se ne va andiamo incontro a una catastrofe nazionale. Lo dice da tempo la Repubblica, ha iniziato a dirlo con chiarezza crescente il Corriere della Sera. Lo dice la Camusso; lo dice la Marcegaglia. Con la consueta efficacia e autorevolezza lo ha detto Eugenio Scalfari (Repubblica, 18 settembre). Lo dicono, anche se con qualche significativa distinzione, i partiti di opposizione. E ora lo dicono persino le agenzie di rating (l'unica che ancora non parla, a dir la verità, è la Chiesa: cosa che ancora una volta riapre la riflessione sulla presenza nel suo seno di un millenario conflitto fra missione spirituale e interessi temporali: prevalenti in genere questi ultimi sulla prima).

Il quadro, dunque, faticosamente e progressivamente, si è chiarito. E però ... e però un inconveniente grave è rappresentato dal fatto che il principale interessato, il Cavalier Berlusconi, non ha nessuna intenzione di andarsene e dispone di una maggioranza parlamentare disposta a seguirlo fino in fondo, qualsiasi cosa, anche la più ributtante accada, nella sua pervicace difesa del posto. La «moral suasion» in questo caso, - è ormai ampiamente dimostrato, - non funziona, perché non è nelle condizioni di funzionare.

Se le cose stanno così, - e cioè: se si diffonde sempre più la persuasione che la permanenza del governo Berlusconi apre le porte a una vera e propria catastrofe nazionale; e se colui il quale, per evitare una vera e propria catastrofe nazionale, non ha nessuna intenzione di fare il famoso «passo indietro» (chiariamo bene questo punto: Silvio Berlusconi non farà mai, mai, mai il famoso «passo indietro»), che si fa per renderlo necessario? Proporrei di spostare il discorso, da questo momento in poi, dal perché sia esso necessario ai modi possibili per renderlo necessario. Cioè: tornare a parlare di politica allo scopo di contrapporre all'imminente, e in queste condizioni, se nulla di nuovo sopravviene, inevitabile catastrofe nazionale, una risposta comune, un disegno all'altezza della difficilissima situazione.Deposta la prospettiva (tanto deprecata) del cosiddetto «golpe democratico» (ma se è vero come è vero che siamo a un passo dalla catastrofe, qualche misura di tipo emergenziale si renderà comunque necessaria, - o no?), il mio ragionamento si compone di tre punti, strettamente connessi, anzi interdipendenti fra loro, come si vedrà meglio in conclusione.

Il primo è: non si può imboccare una nuova strada, ridare fiato e speranza alla gente, mobilitare lo spossatissimo paese, senza nuove elezioni. Governi tecnici, di transizione, inciuci di vario genere, governo di centro-destra senza Berlusconi ecc. ecc., sarebbero toppe in uno scafo che cede tutto. Nuove elezioni con il vecchio sistema elettorale? Sì, anche, se il quadro politico si sarà sufficientemente chiarito. C'è bisogno che il popolo sia chiamato a decidere: se ciò non avverrà, un ulteriore sprofondamento non sarà evitabile. Una campagna elettorale estremamente concentrata, anzi concentratissima, di due mesi, e poi al voto.

Alle elezioni, - a queste elezioni, - non può non andare (secondo punto), per evitare la catastrofe berlusconiana, una coalizione di «emergenza democratica», un centro-sinistra-centro estremamente allargato. Il Terzo Polo deve decidersi: o sta con Berlusconi o con i suoi cascami, oppure contribuisce significativamente a dare inizio alla nuova fase. E le forze che compongono il cosiddetto Nuovo Ulivo debbono muoversi compattamente nella medesima direzione. Si presti attenzione a questo punto: Berlusconi resta in sella e porta il paese verso la catastrofe, non solo perché non ha nessuna intenzione di fare il famoso «passo indietro», ma anche perché le opposizioni, per quanto possa apparire incredibile, non hanno finora enunciato l'intento comune di rovesciarlo insieme mediante il voto. Invece c'è bisogno di questo, - ossia non se ne può proprio fare a meno, - perché la tragicommedia abbia fine. Obiezione: che può fare un governo fondato su di una tale eterogenea coalizione? Può fare molto: può fronteggiare più efficacemente e in maniera al tempo stesso più equa la crisi economica; può ristabilire le regole del gioco, rimettere in auge la Costituzione, la separazione dei poteri, il rispetto della giustizia e della moralità pubblica; può limitare i costi della politica, ridurre le dimensioni della rappresentanza, allargare al tempo stesso la sfera della classe dirigente al di là dei confini logori e spesso screditati del ceto politico tradizionale; può fare una nuova, decente legge elettorale. E, se ci si pensa bene, solo un tale governo può, nell'attuale situazione, fare tutto questo. Inoltre: è chiaro che una campagna elettorale, e un governo, impiantati su questa prospettiva, non provocherebbero soltanto la definitiva sconfitta personale di Silvio Berlusconi, ma la deflagrazione altamente probabile del suo partito di carta: il Pdl: ci sarebbe unicamente il problema di fronteggiare e vagliare quanti fra i suoi aderenti ed esponenti correrebbero verso la nuova sponda.

Perché il processo descritto abbia inizio, condizione essenziale, ovviamente, perché si compia (terzo punto), è che si vada al voto. Al voto, - resistente oltre misura, come più volte si è detto, il Presidente del Consiglio, - si può andare solo con lo scioglimento delle Camere. Torna in gioco l'interpretazione (e la conseguente, eventuale applicazione) dell'art. 88 della Carta Costituzionale: «Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse». Ho chiesto più volte agli esperti costituzionalisti, di cui è ricco il campo democratico, di pronunciarsi su tale testo, ma non ne ho avuto risposta alcuna. A me è del tutto chiaro che la prassi instauratasi nel tempo ha reso lo scioglimento delle Camere, come dicono i giuristi, un atto «complesso e duale», il quale cioè comporta, accanto alla firma del Presidente della Repubblica, la controfirma del Presidente del Consiglio.

A me non pare però che questo stia scritto nella Costituzione, né mi pare che i casi di controfirma elencati con precisazione nell'art. 89 si adattino a quello, di tutt'altra natura, rappresentato dallo scioglimento delle Camere. Forse la strada giusta è leggere gli art. 87, 88 e 89 come un tutto unico, logicamente concatenato e coerente: se il Presidente della Repubblica, colui che scioglie le Camere, ha la facoltà di farlo in quanto è «il capo dello Stato e il custode dell'unità nazionale (art. 87), forse l'eccezionalità della situazione (la follia familistico-politica di Umberto Bossi, recentemente ridispiegatasi, offre anche su quest'altro versante un contributo rilevante alla sempre più probabile implosione italiana), consentirebbe un riavvicinamento alla lettera (e secondo me allo spirito) della Costituzione.

Insomma: gli italiani dovrebbero esser messi nella condizione di poter scegliere loro da che parte stare; la scelta, come accade in tutte le situazioni di emergenza, è molto elementare; per farlo, e farlo bene, ci vorrebbe una concertazione spontanea e al tempo stesso molto intelligente fra istituzioni, forze politiche non-berlusconiane e società civile dissidente. Se ci sono altre strade, bisogna dirlo, e presto.