Differenze tra Presidenti: non solo "l'abbronzatura" o l'integrità morale di uno contro il cerone a palate e la miriade di processo a carico dell'altro.
La differenza sostanziale sta nella capacità di leadership e nel potere decisionale offerto al servizio della collettività nel momento della peggiore contingenza economica dal '29 in poi. La differenza sta nel coraggio di adottare provvedimenti che colpiscono al cuore le lobbies del potere economico, quello che per intenderci, è capace di spostare milioni di voti influenzando un risultato elettorale. La differenza è che uno quel coraggio ce l'ha per cambiare il paese, l'altro no, rimanendo inchiodato dalle sue stesse promesse,  diventate ormai utopie, o forse erano solo bugie per intercettare il consenso della classe media, ago della bilancia nei turni elettorali, da sempre ed oggi colpita duramente 2 volte: dalla crisi e dalla manovra.
Il calvario italiano continua: Standard and Poor's, a sorpresa, nella notte, ha diminuito di un punto il voto al debito italiano: siamo scesi da A+ ad A. Nel momento in cui si pensava alla Grecia e alle preoccupanti difficoltà con cui ci si confronta per rimettere in carreggiata un paese relativamente piccolo, l'attenzione torna improvvisamente sul nostro Paese, la terza economia europea. E questo succede nel momento in cui sembrava che avessimo preso misure di austerità che avrebbero dovuto consentirci di guadagnare tempo. Il Wall Street Journal osserva nell'edizione on line quanto questo possa aumentare le tensioni nella zona euro.
Le motivazioni di Standard and Poor sono lapidarie. La prima: la decisione riflette «prospettive per una crescita economica che si va indebolendo»; la seconda motivazione, legata alla prima è un petardo per la tenuta del nostro governo: la coalizione di governo è «fragile» dice Standard & Poor's e non si ritiene che sarà in grado di prendere quelle misure necessarie per affrontare problemi che si faranno più profondi. La terza riguarda la dimensione del nostro debito che resta troppo elevata. Restiamo in zona A ovviamente e dunque in quella zona che caratterizza un debito ancora buono per gli investitori. Ma quanto più difficile e soprattutto più costoso sarà ottenere dopo questo voto la liquidità necessaria a rifinanziare le nostre scadenze sul mercato?

La decisione di ieri notte, e le motivazioni dell'agenzia per la valutazione del credito colpiranno oggi su tre livelli diversi. Sul mercato, che non ieri, come si è detto, non scontava questa decisione. Si pensava piuttosto a Moody's, più generosa nei nostri confronti, che aveva annunciato una possibile revisione al ribasso del suo voto all'Italia fra un mese. Ora anche Moody's sarà sotto pressione per intervenire. Il secondo livello riguarda il nostro dibattito politico interno, con un'accelerazione delle richieste di dimissioni di questo Governo da parte dell'opposizione e con inevitabili ripercussioni su una coalizione che appare inadeguata agli occhi dei mercati internazionali: quando il leader della Lega Bossi riprende il tema della secessione in questo momento così delicato, i destinatari non solo solo i suoi interlocutori politici interni, ma gli operatori di mezzo mondo che hanno letto la notizia in tempo reale con reazioni preoccupate: «Da oggi ci troviamo su un livello diverso, Standard and Poor's alza la posta in gioco perché le reazioni a una situazione politica difficile da parte di noi operatori vengono improvvisamente certificate in modo ufficiale» ha detto nella notte a il Sole 24 Ore un autorevole operatore a New York.

Il presidente americano è preoccupato.
 La tenuta della crescita europea ha ripercussioni sul mercato e sull'economia americana. Ma i due leader hanno detto di voler considerare «azioni da prendere nei prossimi mesi...». Nei prossimi mesi? Quando il problema era gia' immediato ieri con la crisi greca? È ovvio, come del resto abbiamo già constatato dopo il vertice dei ministri finanziari in Polonia al quale ha partecipato il segretario al Tesoro americano Tim Geithner, che non vi è concordanza di vedute economiche sulle due sponde dell'Atlantico. L'America ha scelto misure di stimolo a breve - con interventi sia di politica fiscale che monetaria – rimandando l'austerità per ridurre il disavanzo pubblico al medio lungo termine. Come ha sottolineato la Banca Centrale americana, «l'importante è crescere». L'Europa e la Banca Centrale Europea non vedono invece con favore interventi di stimolo e le misure per ora sono soltanto restrittive. La crescita resta in secondo piano. La parola ora passa ai ministri finanziari che arriveranno fra due giorni a Washington per il G-7 e per le riunioni del Fondo Monetario Internazionale.
Le conseguenze infine ci saranno oggi sul dibattito politico europeo e internazionale. L'Italia non è la Grecia e con pressioni già forti per la tenuta del sistema monetario europeo, la partita si fa improvvisamente più difficile. Non è un caso che Barack Obama e Angela Merkel abbiamo avuto ieri una conversazione telefonica per discutere delle prospettive della crisi.
Intanto il presidente americano Barack Obama ha presentato oggi, con un discorso al Giardino delle Rose della Casa Bianca, le sue proposte al Congresso di Washington per la riduzione del debito pubblico. Una manovra da 3.600 miliardi di dollari in dieci anni, costituita per metà da tagli alla spesa pubblica e per l'altra metà da un maggiore gettito fiscale. I suggerimenti di Obama avviano di fatto le trattative per arrivare a un accordo bipartisan entro il 23 dicembre quando, in mancanza di una soluzione condivisa da raggiungere nell'apposita Commissione bipartisan istituita quest'estate, scatteranno tagli automatici alla spesa pubblica (sanità e pensioni) e al budget del Pentagono per 1200 miliardi di dollari, già a partire dal 2013.



Obama pensa di recuperare circa 800 miliardi di dollari in dieci anni dalla scadenza dei tagli fiscali di Bush (rinnovati l'anno scorso con il consenso dell'attuale presidente) per chi guadagna più di 200 mila dollari e per le famiglie con un reddito superiore a 250 mila dollari. Altri 700 miliardi, secondo la Casa Bianca che deve anche trovare i fondi per il piano per l'occupazione da 447 miliardi di dollari presentato la settimana scorsa, arriveranno da una serie di limitazioni delle deduzioni fiscali per i redditi più alti, dalla fine delle agevolazioni per le compagnie petrolifere, per proprietari di jet privati e per i manager di fondi di investimento e dalla probabile istituzione di una tassa minima (la "Buffett rule") per chi supera il milione di dollari annuo, pari almeno all'aliquota imposta di chi guadagna molto di meno. Obama propone anche una razionalizzazione del codice fiscale, attraverso una riduzione delle aliquote accompagnata dalla limitazione delle deduzioni.
Sul fronte dei tagli o, come li chiama il presidente, dei risparmi, circa 1100 miliardi dovrebbero arrivare dalla riduzione dell'impegno militare in Iraq e in Afghanistan, mentre il resto è previsto da riduzioni per 248 miliardi nei servizi sanitari per gli anziani (Medicare) e per 72 miliardi nell'assistenza agli americani più poveri (Medicaid). Il presidente proporrà di ridurre altre spese obbligatorie non ancora precisate e sostiene che per effetto dei tagli si risparmieranno anche 430 miliardi di interessi. 
"E' ora che gli americani più ricchi paghino di più. "Non accetteremo un accordo a senso unico che colpisca la gente più vulnerabile. Sappiamo quello che è giusto, e adesso è ora di farlo", ha scandito dal podio nel Giardino delle Rose della Casa Bianca, annunciando che metterà il veto a qualunque piano del Congresso che tagli i servizi sanitari e pensionistici ma non alzi le tasse ai redditi più elevati. "Non ci possiamo permettere aliquote speciali più basse per i ricchi", ha detto senza mezzi termini. 
E se chiedessimo Obama come presidente in prestito per un semestre?