La domanda che più di sovente mi pongo è se quella attuale sia una delle tante crisi cicliche che ha conosciuto il capitalismo nel corso della sua lunga vita e che ad esso sono connaturate o se si tratti, al contrario, di una crisi sistemica. 
A mio parere, la situazione odierna è strettamente legata al crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo. In conseguenza di tale crollo, il capitalismo ha creduto di avere le mani libere per tornare allo “status quo ante”, per rimettere in discussione i diritti fondamentali conquistati dai lavoratori, per realizzare una redistribuzione della ricchezza verso l’alto, cioè a discapito delle masse popolari e a favore dei ricchi, che sono diventati sempre più ricchi, mentre i poveri sono diventati sempre più poveri. Il capitalismo ha ridotto, innanzitutto, i salari, ma, se la gente non ha soldi in mano, non può comprare, diminuiscono i consumi e, quindi, la produzione. Il rimedio è stato peggiore del male. Per evitare la contrazione dei consumi, si è fatto ricorso ad un’economia “drogata”: le famiglie sono state spinte, attraverso carte di credito, accensione di mutui a tasso variabile, ecc.,  a spendere più di quello che avevano, indebitandosi oltre la misura consentita. Di conseguenza, non hanno potuto far fronte ai debiti contratti, mandando in crisi il sistema delle banche.
Di pari passo, c’è stato quel processo di finanziarizzazione dell’economia già previsto da Marx e ben delineato da Lenin in “Imperialismo fase suprema del capitalismo”. Tale finanziarizzazione è molto pericolosa e rischia di mettere in crisi l’intero sistema capitalistico, per due ordini di motivi. In primo luogo, a differenza del capitale “produttivo”, che si riproduce e si espande con l’estrazione di plusvalore e profitto dalla forza lavoro nell’ambito del processo di produzione, il capitale in denaro è molto più irrequieto ed impaziente, molto fluttuante ed incontrollabile, talvolta schizofrenico. In secondo luogo, se, come è accaduto per effetto della finanziarizzazione, le banche sono pure proprietarie delle industrie, la loro crisi determina quella delle stesse industrie. Perciò la distinzione che alcuni economisti e politici fanno tra economia finanziaria ed economia “reale” è puramente di scuola, perché esse hanno finito per coincidere. Ne deriva che l’intero sistema economico, con la crisi del sistema bancario, è stato risucchiato dal vortice della crisi economica globale, con un effetto di stagnazione della situazione congiunturale sfavorevole di cui risentiamo da 3 anni a questa parte e la cui fine sembra non intravedersi all'orizzonte.
Le soluzioni proposte son soltanto dei palliativi. Si è parlato, anche da parte delle socialdemocrazie europee, del “ritorno alle regole”, di un capitalismo “ben temperato”, in contrapposizione alla “deregulation” degli anni passati. E’ da centocinquanta anni che si alimenta questa speranza, anzi questa illusione. E’ come pretendere una tigre vegetariana o un bue senza corna. Il capitalismo è la legge della giungla. Ha ben scritto Marx: “Il capitale ha orrore della mancanza di profitto. Quando subodora un vantaggio ragionevole il capitale diventa insolente. Al 20% diventa entusiasta. Al 50% è prepotente; al 100% pesta sotto i piedi le leggi umane e al 300% non indietreggia dinanzi ad alcun crimine”.
Si è parlato a sproposito di un ritorno alla “economia keynesiana”. Ben diversa è la funzione attribuita oggi all’intervento dello Stato. Difatti, Keynes sostenne, all’epoca della grande crisi del 1929-’33, che lo Stato doveva diventare imprenditore nelle attività produttive per diminuire la disoccupazione, stimolare la domanda aggregata e regolare la circolazione monetaria attraverso la Banca centrale, la quale deve fare in modo che il saggio di interesse corrente sul mercato non superi l’efficienza marginale del capitale. Naturalmente quella keynesiana era una terapia che cercava semplicemente di attenuare le crisi cicliche del capitalismo e che non poteva risolverne le contraddizioni insanabili.
Per converso, gli interventi statali odierni non sono diretti a “nazionalizzare”, bensì solo a puntellare le banche in crisi, allo scopo di salvare i grandi patrimoni societari in mano ai grandi azionisti, dopo che quelli medi e piccoli hanno già pagato enormemente a causa del crollo dei titoli azionari. In secondo luogo, tali interventi tendono a salvaguardare il meccanismo perverso che consente facili guadagni speculativi e trasferisce ricchezza dalla classe media a quella ricca. Ecco perché quest’ultima ha dato il benvenuto all’intervento pubblico, mentre fino a qualche mese prima esso veniva considerato lesivo della “libera concorrenza”, che, come una mano invisibile e miracolosa – per usare un’immagine tanto cara ad Adamo Smith – , avrebbe garantito, da sola, il benessere di tutta la società.
Miliardi di denaro pubblico vengono, dunque, regalati ai gruppi finanziari dominanti e bruciati grazie al meccanismo, anch’esso perverso, della borsa. Il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, presidente della Caritas internazionale e osservatore della Santa Sede alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale, afferma che basterebbero a sfamare un miliardo di persone denutrite nel mondo 30 miliardi di dollari all’anno, cioè meno del 5% del piano della Casa Bianca a favore delle banche.  Lo stesso cardinale propone l’istituzione di un Tribunale internazionale per i crimini finanziari, che, addirittura, producono molti più morti delle guerre, per fame, sete e malattie. Se lo propone lui, che rappresenta la Chiesa cattolica, ossia uno dei principali puntelli del sistema capitalistico mondiale, non vedo perché non dovremmo proporlo noi, che siamo per il superamento di questo sistema.
Ma, per tornare alla domanda di partenza: la crisi attuale è in grado di far crollare il capitalismo? Da sola no. Essa può determinare la stagnazione economica, non il crollo finale. L’abbattimento del sistema capitalistico richiede un’azione cosciente, altrimenti la sua crisi può durare anche secoli, come quella dell’impero romano. Per questo è necessario un soggetto politico che sia protagonista della trasformazione economico-sociale. Ciò significa che in Italia bisogna compiere tutti gli sforzi necessari per la creazione di un solo partito che riunisca tutti coloro che pensano che la qualità della vita sia più importante del profitto ad ogni costo. La Storia ha dimostrato che dopo la caduta del muro e lo sgretolamento delle economie pianificate, l'odierna crisi del modello di sviluppo economico capitalistico ha rappresentato il fallimento di una classe dirigenziale accecata dal cinico e sistematico conseguimento del surplus finanziario. Abbiamo la necessità di ripensare il modello di sviluppo realizzando un sistema in cui lo stato abbia una visione globale dell'economia e di conseguenza possa dirigere le risorse nazionali in base agli specifici obbiettivi del paese. La destinazione di ingenti risorse verso gli investimenti produttivi potrà generare elevati tassi di crescita. Vi sarebbe la possibilità di subire in modo assai limitato gli effetti del ciclo economico con una accorta allocazione del lavoro in base alle esigenze produttive e alle abilità dei lavoratori evitando elevati tassi di disoccupazione. Si perseguirebbe inoltre una perequazione sociale volta alla più equa ridistribuzione delle redditualità complessive con il precipuo scopo di rilanciare consumi e produttività industriale volta al superamento delle attuali contingenze recessive.